Caterina Duraccio

Universidad Pablo de Olavide, Siviglia.

 

Ripercorrendo le fila della nostra letteratura, dagli anni ’60 ad oggi, incontriamo la presenza prevalente di autori ed autrici eterosessuali o meglio, di testi in cui l’identità di genere o l’orientamento sessuale di chi scrive non risulta un tema privilegiato o, comunque, non è considerato oggetto di discussione e riflessione. Al contrario, nel caso di quella che viene chiamata e, soprattutto, considerata “letteratura transessuale” (definizione che non solo tende a ridurre la complessità dei testi ma che in qualche modo obbliga le autrici e gli autori transessuali a restare incasellati in quel tipo di letteratura, prevalentemente autobiografica) gli oggetti principali della narrazione sono proprio le riflessioni sul corpo e sull’identità, sulla percezione individuale e su quella sociale. Le produzioni letterarie autobiografiche in questo campo, comunque, sono fondamentali per la visibilità e la normalizzazione e accettazione sociale di persone transgender e transessuali. Fortunatamente negli ultimi vent’anni si è verificato un notevole incremento di queste scritture, simbolo della presa di parola delle protagoniste e dei protagonisti.

Di questo filone letterario fanno parte libri come quelli di: Cecilia Gatto Trocchi, Vita da trans. 15.000 transessuali in Italia. Storie e confessioni di un’esistenza difficile, (1995); Delia Vaccarello, Gli svergognati. Vita di gay, lesbiche, trans: storie di tutti pubblicato (2002); Davide Tolu Il viaggio di Arnold (2005); Porpora Marcasciano Tra le Rose e le Viole: la storia e le storie di transessuali e travestiti (2002) e L’aurora delle trans cattive (2018); Cristina Vivinetto Dolore minimo (2018).

Anteriori a Princesa sono, invece, i testi di Pina Bonanno e Paola Astuni (1981) e Maria Adele Teodori (1979), rispettivamente Storie di amori e di lotte dei transessuali italiani e Vita da Travestito. Molti di questi testi non sono propriamente autobiografici, ma sono, più che altro, delle raccolte di storie di vita e di relazioni di persone transgender a partire dagli anni ’80 in Italia. Uno dei romanzi che apre la strada a questo nuovo modo di narrare la propria sessualità in rapporto alla società è Roma Capovolta, di Gio Stajano, pubblicato da Quattrucci nel 1959, e poi censurato e sequestrato lo stesso anno. La stessa sorte toccò altri due dei suoi romanzi: Meglio l’uovo oggi (1959) e Roma erotica (1967). Molti anni dopo, nel 2007, pubblica un libro tratto da un’intervista con Willy Vaira Pubblici scandali e private virtù- dalla Dolce Vita al convento, in cui ripercorre alcune delle scelte più importanti della sua vita, tra cui quella finale dell’isolamento. Il primo dei tre romanzi autobiografici racconta la Roma della vita mondana degli anni ‘50, attraverso gli occhi del suo autore, Gió Stajano, autodefinitosi “il primo omosessuale in Italia”.

In effetti, Gió Stajano, attrice, pittrice e scrittrice pugliese trapiantata a Roma, è stata la prima persona omosessuale a dichiararsi pubblicamente e, soprattutto, a fare della sua sessualità un motivo di orgoglio e rivendicazione. Nel 1983 finisce la transizione operandosi a Casablanca e diventando, di fatto, la prima transgender in Italia ad aver resa pubblica la sua condizione e ad essere una delle protagoniste della vita mondana romana per più di vent’anni. Quasi dieci anni dopo, nel 1992, pubblica la sua autobiografia La mia vita scandalosa, e diventa la prima trans a pubblicare due testi autobiografici prima e dopo il cambio sesso. Antecedente alla pubblicazione della seconda autobiografia è un’intervista che rilascia per il giornale Il Borghese a Francesco D. Caridi, nello stesso 1983, in cui chiarisce pubblicamente la sua posizione appena dopo la transizione:

 

E invece no, non ero un omosessuale, ero una donna fisicamente sbagliata. Ha sbagliato i calcoli la natura. C’era un conflitto fra la psiche femminile e il fisico mascolino. Io ero convinta di essere una donna e mi comportavo di conseguenza. La gente mi vedeva come un uomo e da qui veniva tutto lo scandalo, la mia infelicità, l’incomprensione dei miei partners. (Stajano, 1983).

 

La complessità della condizione in cui si trova la scrittrice non è favorita dalla totale assenza di riferimenti teorici, filosofici e culturali in grado di fornire strumenti ideologici per riflettere sulla disforia di genere. La discordanza tra identità di genere e sesso biologico crea una sorta di disorientamento nei soggetti in questione, obbligandoli a delle riflessioni sulle differenze tra una natura corporale e una psicologica. Il corpo, ad ogni modo, è il centro nevralgico di questo discorso poiché è la rappresentazione e la presentazione di noi stessi davanti l’intera società, in tutte le relazioni che instauriamo, di qualunque natura esse siano. Il corpo è un luogo reale e concreto da cui nessuna persona può allontanarsi: non esiste, infatti, nessun momento in cui sia possibile separarsi da lui, giacché è “irrimediabilmente qui e mai altrove” (Foucault, 1966). La dimensione corporea in sé, dunque, costituisce un’esperienza reale ma è nella percezione dello stesso che risiede la reale contraddizione:

 

Sono lo specchio e il cadavere che assegnano uno spazio all’esperienza profondamente e originariamente utopica del corpo; sono lo specchio e il cadavere che fanno tacere, placano e chiudono, dietro una recinzione per noi ora sigillata, questa grande rabbia utopica, che deteriora e volatilizza in ogni momento il nostro corpo. È grazie a loro, è grazie allo specchio e al cadavere che il nostro corpo non è pura e semplice utopia: Ora, se pensiamo che l’immagine dello specchio si trova in uno spazio per noi inaccessibile e che non potremo mai essere là dove sarà il nostro cadavere, se pensiamo che lo specchio e il cadavere sono essi stessi in un insuperabile altrove, scopriamo che solo le utopie possono rinchiudere su di sé e nascondere per un momento l’utopia profonda e sovrana del nostro corpo. (Foucault, 1966)

 

Il riflesso della natura corporale nello specchio è, dunque, il momento in cui si abbandona definitivamente l’idea di un corpo utopico poiché rappresenta l’inevitabile riflesso di noi stessi, dell’apparenza che abbiamo davanti alla società. Non a caso, in diversi testi autobiografici di persone transessuali, lo specchio assume un ruolo centrale poiché obbliga al confronto diretto con la discordanza tra il corpo biologico e l’identità di genere: è lo strumento di partenza per le riflessioni sulla dimensione individuale e sulle rappresentazioni sociali. Questi testi procedono nella direzione di produrre discorsi veri sul sesso, rafforzando e divulgando sessualità diverse, attraverso racconti individuali che adoperano la confessione e l’autobiografismo, contrastando i discorsi scientifici medico-psicologico delle perversioni, turbamenti, patologie, e conducendo le pratiche sessuali al campo della naturalità e della legittimità (Foucault 1989).

Come Fernanda, anche Gió vive un inevitabile rapporto di conflittualità con la percezione che gli altri hanno della propria persona. Il sentimento di infelicità latente che caratterizza entrambe scaturisce dalla discrepanza tra dimensione pubblica e dimensione privata. Farias de Albuquerque, sia nel corso della narrazione che nelle diverse interviste, spesso ritorna sull’ipocrisia della società nei suoi riguardi come donna transgender: in diverse occasioni lamenta che gli stessi uomini che di notte la cercavano, di giorno la disprezzavano. Gió, che viveva una condizione diversa e -senza dubbio- privilegiata rispetto a quella della giovane brasiliana, muove accuse molto simili:

 

Gli uomini che venivano con me, mi accettavano come donna per il periodo in cui magari non avevano un’altra donna ‘vera’, oppure in un momento di emergenza. È chiaro che, quando spuntava la donna ‘vera’, prima o poi venivo messa alla porta. Da parte mia c’era amore, da parte loro solamente simpatia, curiosità, momentaneo tornaconto. Fra omosessuali ci può esser amore, ma non fra un eterosessuale e una persona ‘strana’, come io ero e sono. (Stajano, 1983)

 

L’alterità a cui fa riferimento Stajano è frutto di quella discrepanza tra sociale e individuale. Come sostiene Foucault, lo sguardo medico e borghese, ha riservato ai corpi “tra i generi” uno sguardo normalizzatore che è allo stesso tempo ossessionato e disgustato dalla loro “diversità” (Foucault 1989). Protagonista dei salotti romani, prima della transizione, Gió ha partecipato come attore secondario in diversi film, da Federico Fellini a Totó, sempre interpretando se stesso, un giovane omosessuale eccentrico che anima i pomeriggi e le serate romane. I suoi ruoli sono relegati esclusivamente alla rappresentazione della sessualità, unico punto di interesse per la borghesia romana. Nella sua vita privata, al contrario, questa alterità era motivo di discriminazione più che di partecipazione. Il corpo “impuro” ed “ibrido”, che si situa tra le classificazioni della cultura, che mescola razza e generi diversi, è oggetto di repulsione ma anche di fascinazione (Douglas, 1966).

Un testo di fondamentale importanza per la diffusione di autobiografie e diari di persone transessuali viene da oltreoceano ed è la autobiografia di Christine Jorgensen: Christine Jorgensen A personal autobiography, pubblicato per la prima volta nel 1967[1]. Il centro nevralgico di queste narrazioni è la dimensione pubblica in cui si sviluppano: la visibilità di queste piccole opere permette la presa di parola di tutta una classe subalterna fino a quel momento invisibile. L’autobiografia di Jorgensen presenta caratteri estremamente differenti dai testi presi in analisi in precedenza. Il suo racconto non è un momento di affermazione identitaria, né un manifesto politico. La rivendicazione dell’autrice si basa su motivazioni biologiche e mediche: è la narrazione di una vita vissuta con la disforia di genere, una patologia riconosciuta e avallata dagli specialisti europei. Non a caso, infatti, l’introduzione all’autobiografia di Jorgensen ha una firma estremamente importante, quella di Harry Benjamin, sessuologo tedesco. Considerato il “padre del transessualismo”. Fu il primo a usare questo termine nel suo Il fenomeno del transgender (1968) e ad individuare il mancato riconoscimento identitario fra il proprio corpo ed il genere di appartenenza come una patologia e che, pertanto, poteva essere trattata clinicamente. L’approccio medico alla transessualità ha facilitato l’assimilazione del pubblico americano che ha accettato, di buon grado, il ritorno in patria di Christine dopo l’operazione in Europa. Le giustificazioni mediche servivano a Benjamin come vetrina per presentare la disforia di genere come malattia e, di conseguenza, per motivare i trattamenti ormonali e le sue posizioni in merito a una condizione che si presentava nuova alla medicina. La differenza con l’omosessualità è una delle componenti che meglio lasciano intendere la volontà del dottore tedesco: l’omosessualità non presenta alcuna componente patologica e, considerato che ancora non esisteva una coscienza sociale rispetto all’identità di genere, andava trattata da un punto di vista psicologico e non medico-terapeutico.

Gli echi dell’autobiografia di Christine Jorgensen arrivarono anche in Italia, scatenando non solo una forte curiosità ma, anche e soprattutto, dando inizio a una serie di racconti autobiografici di persone transessuali che iniziavano a percepirsi parte di un gruppo, una comunità amplia e internazionale che, per la prima volta, prendeva parola nel mondo della letteratura. La partecipazione in letteratura dei collettivi omosessuali, transessuali e transgender, quasi inesistente fino a quegli anni, trova giustificazione e legittimità in questo nuovo tipo di narrazioni.

Un altro testo pioniere è Studies in Ethnomethodology di Harold Garfinkel (1967), che ricostruisce le esperienze di Agnes, un giovane transgender californiano che alla fine degli anni cinquanta fu tra le prime a sottoporsi a un’operazione chirurgica per il cambio di sesso. Questo saggio si distaccava dal paradigma biologista, e abbandonava l’idea di una supposta normalità o anormalità biologica o psicologica dei transessuali, fornendo bensì un quadro dei presupposti culturali in base ai quali vengono organizzate e negoziate le richieste e i bisogni di Agnes, disegnando anche un quadro molto esplicito dei principi in base ai quali vengono ordinariamente legittimate le identità sessuali.

 

In termini di letteratura omosessuale e transessuale, il panorama italiano presenta lacune importanti, soprattutto a causa del suo sviluppo tardivo. Riempire questi vuoti è il compito che si propone Porpora Marcasciano nella sua AntoloGaia, il racconto di un percorso personale e politico nell’Italia degli anni ’70, quando la parola transessuale non si conosceva e le lotte per i diritti delle persone Lgtb erano ancora agli albori:

 

Qualcosa era successo e stava succedendo, ma io non ne sapevo niente. Sylvia Rivera aveva lanciato la bottiglia ai poliziotti tre anni prima, l’anno precedente Mario Mieli, Alfredo Cohen insieme ad altri avevano fatto il loro sit-in a Sanremo contro un convegno di sessuologi che consideravano ancora l’omosessualità una malattia. Quella era la prima protesta gay in Italia, ma della quale io non sapevo nulla. (Marcasciano: 2007, 32)

 

Nel 1969, a New York, Sylvia Rivera lanciò una bottiglia alla polizia, diventando uno dei volti noti dei moti di Stonewall, i movimenti di liberazione della comunità LGTB. In Italia, qualche anno dopo, il 5 aprile 1972 ebbe luogo quella che poi sarà conosciuta come la Stonewall italiana o il primo Gay Pride in Italia. Fu la prima volta, infatti, che gruppi organizzati di persone omosessuali provenienti da tutta Italia, tra cui F.U.O.R.I. (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) e l’attivista Mario Mieli, si riunirono a Sanremo per rivendicare la propria appartenenza alla comunità omosessuale e transessuale. Il principio rivendicativo della protesta risiedeva nella ferma opposizione ad un certo modo di trattare l’omosessualità promulgata in quel momento nel Congresso Internazionale di Sessuologia (CIS). Di fatto, è soltanto nel 1990 che l’OMS elimina l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali e pertanto negli anni precedenti lo stigma legato alle persone LGBT era principalmente legato all’idea di poter “curare” questa “malattia”. Come spesso accade con tutte le minoranze, le notizie dei movimenti e delle proteste per i diritti omosessuali non ebbero grande risonanza ma furono presto accantonate. Non sorprende, dunque, che Porpora Marcasciano, con enorme onestà e fedeltà di cronaca, spesso ribadisca di non esserne al corrente, di non sapere. Non per disinteresse, giacché si tratta di un soggetto politicizzato e fervente, ma per assoluta e totale mancanza di attenzione da parte dei mezzi di informazione nella diffusione di notizie simili. Pertanto, era solo tra le fila dei collettivi, dei partiti, delle organizzazioni, che si poteva accedere a questo tipo di conoscenza. Se questi erano i problemi e i pregiudizi che soffrivano gli omosessuali, la transessualità era un tema pressocché sconosciuto e nel linguaggio comune veniva codificata esclusivamente come travestitismo e indissolubilmente associata alla prostituzione. La visione pioneristica del filosofo e attivista Mario Mieli contribuì alla messa in discussione dei dogmi della psichiatria e dell’opinione comune, proponendo la rottura del pensiero binario maschio-femmina in favore di identità di genere più fluide. La sua intervista del programma RAI Rewind nel 1977, anno di pubblicazione del suo Elementi di Critica Omosessuale, è una delle prime e rare occasioni in cui in televisione si è discusso della differenza tra travestitismo e transessualità. L’idea portata avanti dal filosofo venticinquenne era quella della totale superazione dei generi come entità fisse proponendo identità fluide in continuo movimento e in continua oscillazione tra il maschile e il femminile. Il presupposto teorico adottato da Mieli è quello di una bisessualità di base comune a tutti gli esseri umani che, nel corso della vita, proverebbero pulsioni sessuali per entrambi i sessi. Tuttavia, l’eteronormatività assunta e difesa dall’interno sistema egemonico, che è patriarcale e capitalista, impedisce lo sviluppo della molteplicità delle tendenze sessuali già presenti in ogni essere umano. Non solo bisessualità e pulsioni sessuali ma il pensiero di un ermafroditismo universale a cui tutti siamo sottoposti e che reprimiamo per accordarci alle norme sociali e, come ricorda nel suo saggio critico “in genere, si chiamano transessuali tutti gli adulti che vivono coscientemente il proprio ermafroditismo e che riconoscono in sé, nel proprio corpo e nella mente, la presenza dell’ “altro sesso” (Mieli, 1977: 20). Ogni essere umano, dunque, conserva in sé elementi di maschile e di femminile e, pertanto, la superazione della concezione binaria consiste proprio nell’assunzione di un transgenderismo universale e comune, frenato dalle norme costruite dal capitalismo e dal patriarcato.

Continua Mieli:

 

Attualmente, i “casi” di transessualità manifesta riflettono le problematiche relative alla contraddizione tra i sessi e alla repressione dell’Eros, che è repressione della universale disposizione transessuale (ovvero polimorfa ed ermafrodita) umana: i transessuali manifesti, perseguitati dalla società che non ammette confusione tra i sessi, tendono spesso a ridurre la propria effettiva transessualità a monosessualità apparente, cercando di identificarsi col sesso storico “normale” opposto al loro sesso genitale; così, la donna transessuale si sentirà uomo, scegliendo la virilità, mentre l’uomo transessuale si sentirà donna, scegliendo la femminilità. Un essere umano dal sesso “imprecisato” circola per le strade del capitale molto meno facilmente di un uomo che sembri, a tutti gli effetti esteriori, donna o di una donna che sembri uomo. (Mieli, 1977: 20)

 

Ciò che condanna apertamente il filosofo è la tendenza della società a dover necessariamente identificare gli individui in uomini e donne, non lasciando spazio alle soggettività ibride, meticce e fluide che attraversano tutti gli spazi dell’esistenza e dell’esperienza umana. Sarebbe dunque la necessità dell’accettazione e approvazione sociale a spingere le persone transgender o travestite a diventare transessuali e quindi a sottoporsi all’operazione di riassegnazione di genere. Secondo l’attivista marxista, infatti, in una società ideale basata su una concezione aperta e fluida delle identità di genere, non si presenterebbe la necessità del cambio fisico dei genitali, poiché non sarebbero considerati come elementi definitori del sesso.

Il caso di Mario Mieli ad ogni modo è un’eccezione per l’Italia degli anni ’70, ancora fortemente ancorata all’idea di una sessualità tradizionale. Marcasciano ricorda che la prima volta che in televisione si usò la parola “omosessuale”, impregnata di pregiudizi negativi, fu nel 1975 in occasione dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Questa sessualità “irregolare” era associata indissolubilmente alle immagini di perversioni, a pratiche definite “innominabili”[2]. Principalmente, dunque, i principali mezzi di comunicazione evitavano di riflettere apertamente sull’omosessualità, favorendo l’espandersi della percezione dell’altro basata esclusivamente su pregiudizi e condanne aprioristiche. I gruppi in difesa dei diritti gay iniziavano comunque a nascere nelle grandi città come Roma, Napoli, Bologna e Milano ed erano tendenzialmente legati alle associazioni e organizzazioni di estrema sinistra in cui, grazie ai collettivi femministi, avevano luogo animate discussioni e riflessioni sull’identità di genere e sull’orientamento sessuale. Nei paesi più piccoli, invece, le persone omosessuali e transessuali continuavano ad essere isolate, nascoste e ripudiate, senza avere nemmeno una comunità di riferimento. Lo spostamento dalle periferie ai grandi centri, così come per Fernanda, è un movimento indispensabile per il pieno raggiungimento di una totale presa di coscienza su di sé. Porpora Marcasciano racconta la storia dei suoi anni ’70 definendola trip, un lungo percorso geografico, politico ed identitario che l’ha condotta alla scoperta della sua sessualità e, più globalmente, della sua persona. Come Mieli, anche lei è un’attivista e un soggetto politicizzato che, attraverso i contatti con i collettivi della sinistra extraparlamentare e ad alcuni collettivi femministi, ha goduto di una certa libertà di movimento e di pensiero, sicuramente avanguardistica rispetto alla società italiana di quegli anni. In questo senso, Fernanda Farias de Albuquerque e la Tarantina rappresentano quei soggetti proletari e subalterni che sono stati oggetto di studio da parte del giovane attivista milanese. Scappate entrambe di casa in giovanissima età e senza aver concluso gli studi, hanno intrapreso il loro viaggio rincorrendo proprio quella libertà di espressione e quel senso di comunità che l’Italia stava negando. Con l’inizio degli anni ’80, infatti, anche in Italia si diffonde la notizia del possibile contagio dell’AIDS, denominata da alcuni giornali “la peste gay”. Porpora Marcasciano, così come Fernanda, ricorda la sensazione di paura che in quel periodo aleggiava in tutta la comunità LGBT. La disinformazione intorno alla malattia e la pressione delle istituzioni e della chiesa furono i principali fattori che contribuirono alla costruzione di un’immagine assolutamente negativa degli omosessuali e dei transessuali, che venivano considerati i pericolosi untori del virus. La consapevolezza di aver vissuto esperienze a rischio era il grande timore di quel tempo in cui “l’autocoscienza lasciò il posto all’autoaiuto, l’autodifesa all’assistenza, la liberazione alla cura” (Marcasciano: 2007, 240). Parlare di sessualità ritornò ad essere lentamente un tabù e l’esplosione degli anni ’70 si era ormai dilatata, spiazzata da qualcosa di più grande e più pericoloso. Allo stesso tempo, però, si giocava la battaglia per l’approvazione della legge 164 che permette il riconoscimento e la ri-assegnazione del sesso attraverso intervento chirurgico. Il 14 aprile 1982 l’Italia diventava il secondo paese europeo, dopo la Germania, con una normativa sul cambio di sesso. Nel 1983 Giò Stajano termina le operazioni chirurgiche a Casablanca e diventa la prima transessuale dichiarata in Italia.

 

Percorrendo le fila della brevissima tradizione letteraria LGBTQI si incontra la breve autobiografia della Tarantina, femminiello napoletano, a doppia firma con la giornalista Gabriella Romano, La Tarantina e la sua “dolce vita”: racconto autobiografico di un femminiello napoletano[3]. Il testo è la narrazione autobiografica della vita di un conosciutissimo personaggio partenopeo, una giovane donna transessuale pugliese, trapiantata a Napoli in adolescenza, ed in particolare delle sue avventure vissute a Roma, negli anni della Dolce Vita. Scritto a quattro mani con la giornalista e documentarista Gabriella Romano, presenta caratteristiche simili, per tema e per forma, con il romanzo di Farias e Jannelli. In primo luogo la doppia firma: entrambe condividono l’autorialità del testo. Come nel caso di Princesa, l’armonia tra le due coautrici è il centro nevralgico del romanzo: l’una è imprescindibile per l’altra e il comune accordo tra le due genera un unico autore simbolico. In secondo luogo, entrambe hanno come oggetto la storia di vita di una persona transgender, anche se con delle importanti differenze.

Se per Fernanda la scrittura è uno strumento di sopravvivenza e racconta i ricordi ma anche il declino ed il dolore di una vita vissuta ai margini della società, nel caso della Tarantina la narrazione assume toni più positivi, raccontando una società di cui non solo faceva parte ma che, in qualche modo, la celebrava. Nata nel 1936 ad Avetrana, in Puglia, all’anagrafe Carmelo Cosma, la Tarantina è stata una delle protagoniste della vita mondana romana negli anni della Dolce Vita che poi abbandonò per tornare ai vicoli dei Quartieri Spagnoli di Napoli, la sua vera casa. La vita giovanile della Tarantina trascorre tra vita mondana, prostituzione, abbandoni, carcere e la scoperta dell’identità sessuale. In particolare, nella fase della prostituzione, si delineano delle grandi differenze tra lei e Fernanda. L’esperienza della Tarantina è quella del jet-set romano, di clienti ricchi, di spettacolo e di regali. È, per sua stessa ammissione, estremamente diversa da quella che hanno vissuto e sono costrette a vivere altre persone. Come altri personaggi legati a quell’ambiente, la popolarità della Tarantina è data dalla sua “alterità”, in quel momento evidentemente funzionale all’alta borghesia. Il film-documento di Fortunato Calvino, intitolato La Tarantina. Genere: Femm(e)nèll, così come l’autobiografia con Gabriella Romano, presentano la protagonista come femminiello o femminèll, rispettando appieno la volontà di Carmelo Cosma, che si autodefinisce “femminiello” e non transgender o travestito.

La figura del femminiello ha origini ben radicate nella cultura partenopea: rispettato e perfettamente integrato nel tessuto sociale, in particolar modo dei quartieri popolari, è uno dei protagonisti attivi della vita cittadina. Secondo lo studio condotto da E. Zito e P. Valerio (2013:26) la prima testimonianza del termine femminiello in letteratura risale al 1586 in De Humana Physiognomonia di Giovanni Battista della Porta:

 

Nell’isola di Sicilia son molti effeminati, et io ne viddi uno in Napoli di pochi peli in barba o quasi niuno; di piccola bocca, di ciglia delicate e dritte, di occhio vergognoso, come donna; la voce debole, sottile, non poteva soffrir molta fatica; di collo non fermo, di color bianco, che si mordeva le labra; et insomma con corpo e gesti di femina. Volentieri stava in casa e sempre con una faldiglia come donna attendeva alla cucina et alla conocchia; fuggiva gli omini, e conversava con le femine volentieri, e giacendo con loro, era più femina che l’istesse femine; ragionava come femina, e si dava l’articolo femmineo sempre: trista me, amara me (Della Porta: 1971, 813)

 

L’identità di genere di questi personaggi non era motivo di emarginazione sociale, ma li ascriveva con estrema naturalezza all’interno dell’universo femminile, affidandogli -spesso- quei ruoli considerati tipicamente femminili come la cura della casa e dei bambini. Un’ulteriore testimonianza letteraria della presenza dei femminielli nel tessuto sociale di Napoli è data da un episodio raccontato nel 1897 in Usi e costumi dei camorristi, di Abele de Blasio: Lo spusarizio. Si tratta del racconto di un matrimonio tra due persone dello stesso sesso, un pederasta attivo e uno passivo, della loro luna di miele e dei loro comportamenti. Il frammento di di Blasio è più critico rispetto a quello del testo cinquecentesco, ma senza dubbio testimonia l’esistenza dei femminielli nel tessuto urbano della Napoli di fine ‘800. La diversità del femminiello era, ed è, naturalizzata e accettata.

Quello dei femminielli si sarebbe pertanto così configurato come un terzo genere, con un suo tipico universo di significati, cioè un’identità altra, distinta nettamente sia dal genere femminile sia da quello maschile, senza però superare la frontiera del deteriore grazie ad un sociale accogliente e tollerante portatore di una cultura risalente, stratificata e tutto sommato così evoluta da incarnare un tipo di post-modernità sui generis (Zito e Valerio, 2013: 48). Le testimonianze dell’accettazione sociale di un gruppo di persone così variegato trovano posto anche nella produzione teatrale napoletana, da La Gatta Cenerentola di Roberto de Simone alle canzoni e alle creazioni di Peppe Barra. Anche Marcasciano li ricorda, in una scena vissuta a Napoli:

 

L’esperienza più interessante che vissi grazie a lui, della quale non compresi subito l’importanza e il significato, fu la partecipazione a una cena per festeggiare il matrimonio dei femminielli ai Quartieri Spagnoli. […] La cena si svolse in una vecchia bettola dei Quartieri Spagnoli alla presenza di una trentina di invitati, tra cui molti travestiti. Uso questa definizione perché, non conoscendo ancora la parola “trans”, era quella più in voga. Paradossalmente, da quando è stato introdotto il termine “transessuale”, è cominciata la lenta e inesorabile fine dei femminielli e del loro splendido mondo; sotto la spinta della globalizzazione e dei suoi abbagli si è sgretolata una tradizione antica di secoli. Quella dei femminielli napoletani era la comunità trans travestita più antica del Mediterraneo. (Marcasciano: 2007, 116)

 

Non sorprende, dunque, che la città di Napoli abbia saputo accogliere quel ragazzino pugliese, cacciato di casa e ripudiato dalla famiglia per la sua omosessualità. Lei racconta, e alcune cose riportano immediatamente all’infanzia di Fernanda, di avere circa otto anni e di iniziare ad avere “atteggiamenti femminei” (Tarantina, Romano: 2013, 41) che però, più che altro, considerava nella dimensione del gioco infantile e che attirarono l’attenzione di un vigile urbano. L’uomo non tardò a diffondere la notizia in paese, di questo bambino con i modi da femmina che lanciava avances agli uomini adulti. Così, nella più canonica delle dinamiche di borghi così piccoli e così decentrati, i genitori la ripudiarono per salvarsi da quel grande scandalo di paese. Abbandonato dalla famiglia e dalla società, decide di andarsene: prima Manduria, poi Taranto. Nella città tra i due mari conosce un giovane militare con cui instaura una relazione innocente di amicizia e che decide di seguire a Napoli. Durante il viaggio in autostop, stanchi per l’interminabile cammino, trovano ospitalità in un vecchio casale. In questa occasione viene ceduta dall’amico al padrone di casa, di cui rifiutò il corteggiamento e che li portò a proseguire il loro viaggio la stessa notta. Il giorno dopo arrivarono a Napoli, la Tarantina aveva dieci anni ed era da poco finita la guerra. Il compagno di viaggio la abbandona dopo solo qualche ora e lei si ritrova da sola, in una città sconosciuta, senza contatti né risorse. Nei frenetici vicoli dei Quartieri Spagnoli ritrova il calore e l’accoglienza di una città che si porta dietro una antichissima tradizione in cui omosessuali e travestiti sono parte integrata ed integrante del tessuto urbano. Il battesimo del rione napoletano arrivò poco dopo: “Vieni con me, Femminié, non ti preoccupare” (Tarantina, Romano: 2013, 54) le disse Annarella, una giovane prostituta che si prodigò a trovarle un lavoro e una sistemazione. E così, per adozione e per amore, Carmelo Cosma a dieci anni diventa un femminiello napoletano. I tempi della rivoluzione sessuale erano lontani ed in Italia travestirsi da donna era ancora punito come offesa al pubblico decoro. Di nuovo, l’unico momento in cui fosse possibile, o quantomeno concesso, era il carnevale: una festa basata su travestimenti in alcuni casi anche a carattere performativo, che celebrava la libertà di espressione. Era il periodo delle prime feste private, dei primi contatti con il mondo transessuale, del crescente desiderio di vestirsi sempre ed esclusivamente da donna, di vivere come donna, di sognare come donna. Inizia così il suo percorso alla ricerca di una vita degna e, soprattutto, libera. Scopre prestissimo la prostituzione, grazie alla quale riesce ad avere guadagni sufficienti per sé e per le persone dei Quartieri Spagnoli, a cui era solita elargire parte del suo stipendio, forse in segno di riconoscenza, forse per atto di bontà o forse per pura empatia. Questo incondizionato altruismo è una caratteristica costante nella sua vita, tanto che anni dopo creerà la prima casa di accoglienza per persone transessuali. Dopo questi primi anni napoletani, spinta dalla voglia di successo, si trasferì a Roma, dove visse la sua “Dolce Vita”, fatta di incontri con noti personaggi del cinema, di feste importanti e di comparse nei film. La tappa romana le diede la spinta per allontanarsi da quell’ambiente di estrema povertà a cui era abituata e per vivere il sogno di una vita fatta di palcoscenici e riflettori. Si susseguirono relazioni personali e professionali importante, era la protagonista delle serate più in voga della Roma bene, abbagliata dal personaggio più che dalla persona. L’essere una donna transessuale, infatti, era percepito quasi esclusivamente come un atto performativo di un artista eccentrico, una rottura con il mondo borghese. Il personaggio è dunque visto come un performer: la Tarantina, così come Giò Stajano -accomunate dall’esperienza della recitazione e del jet set- personificano sé stesse anche nei film in cui partecipano, bloccate in quel ruolo bizzarro e stravagante, accettate più per l’anticonformismo costruito che per la reale personalità. La voglia di ritornare a casa era sempre maggiore e il suo ritorno a Napoli fu repentino, oltre che inevitabile. Alla fine degli anni ’60 la città partenopea era un porto sicuro per le persone transessuali e i femminielli aumentavano, soprattutto nei Quartieri Spagnoli, dove crearono una vera e propria comunità. La prostituzione era la principale risorsa ma, a differenza dell’esperienza di Fernanda, non esisteva competizione ma una grande solidarietà e un grande rispetto. Gli equilibri del rione erano stabili, c’era un forte senso di unione e di mutuo sostegno: si festeggiava insieme, si lavorava insieme, ci si proteggeva a vicenda. Con gli anni ’80 anche a Napoli arrivò l’eroina, una droga che “ha portato la violenza, ha distrutto le cose belle dei Quartieri” (Tarantina, Romano: 2013, 66). Le conseguenze dirette furono immediate: l’armonia che prima c’era per i vicoli si perse lasciando spazio ad una sfiducia diffusa, alla povertà estrema derivata dalla tossicodipendenza e quindi piccoli furti in casa, scippi e rapine. La conciliazione e la complicità che c’era tra gli abitanti venne meno mentre la paura verso il prossimo aumentava. L’eroina aveva cambiato la città intera, le sue dinamiche di resistenza e di convivenza. Lavorare in strada diventava sempre più difficile, le prostitute erano quasi tutte scomparse e anche la Tarantina decise di sposarsi, prima Montecatini, poi Ascoli, Milano, Firenze, Torino, Genova e Parigi. Viaggi brevi e con un costante ritorno a Napoli, dove mantenne il suo appartamento, che diventò casa e rifugio per tutte le persone che ne avessero bisogno.

Il ritorno poi definitivo nella città partenopea coincide con una serie di riflessioni sul proprio corpo e sulla sessualità che stupiscono per il loro aspetto avanguardistico. La Tarantina incarna lo spirito queer prima di conoscerne le teorie femministe o, addirittura, prima ancora che le femministe teorizzassero in merito, declinandolo in maniera semplice e quasi essenziale: “Meglio rimanere una cosa diversa, né l’una e nell’altra cosa e un po’ di tutti e due”. Lei supera l’idea di binarismo di genere, preferendo restarne fuori e vivere una condizione più libera e fluida. Ad ogni modo, la sua vita è stata attraversata anche da violenze e abusi, di umiliazioni di chi “ritenendosi normale e perciò superiore a me, a volte mi insultava o mi sputava in faccia”. Colpisce, senza alcun dubbio, la serenità della narrazione di una vita complessa e variegata, vissuta in un momento storico difficile ma con l’appoggio dell’intera comunità. La Tarantina, come “ultimo dei femminielli[4], è la prova della relazione naturalizzata ed armoniosa che i quartieri popolari della città campana hanno con questo tipo di alterità. È una relazione empatica e reciproca di una società che si dimostra accogliente e scevra da pregiudizi:

 

E la gente applaudiva con entusiasmo perché in generale a Napoli il femminiello è sempre stato ben voluto, tradizionalmente è ritenuto una creatura dolce, che si presta, si concede al piacere come non si tira indietro nell’offrire aiuto e quindi è un personaggio amato. Non mostra distacco, non è come i gay televisivi di oggi, per esempio, che sono snob, presuntuosi o esagerati. Il femminiello napoletano è sempre stato una persona alla mano che vuole la compagnia di tutti e sa stare con tutti. (Tarantina, Romano: 2013, 74)

 

Il legame con la città che la accolse in giovanissima età è un elemento fondamentale per la comprensione dei desideri della protagonista, poiché rappresenta il porto sicuro e la famiglia a cui tornare.

Alla luce delle considerazioni fatte fino a questo momento si può notare che racconto autobiografico della Tarantina e di Gabriella Romano presenta una grande differenza con il testo di Fernanda Farias de Albuquerque e Maurizio Jannelli, poiché il presupposto di partenza è del tutto diverso. Se alla base del primo testo, attraverso la narrazione di una vita eccezionale come quella della Tarantina, c’è la volontà di presentare un personaggio che -con le difficoltà e le contraddizioni di una vita vissuta appieno- è socialmente accettato e riconosciuto, nel caso di Princesa i fili narrativi spingono in direzione opposta. La condizione migrante di Fernanda è, in questo senso, determinante: Princesa rappresenta l’altra, transgender, prostituta e immigrata, che non trova conforto e accoglienza nella società in cui vive, ma che, al contrario, viene emarginata silenziata. In questo senso, Princesa rappresenta un testo fuori dal comune. Non solo per essere una sintesi quasi perfetta tra le inquietudini della scrittrice-protagonista e le risorse creative del coautore ma anche, e soprattutto, per la capacità di declinare tutte le sfumature, e le conseguenti problematiche, di un personaggio narrativo articolato e complesso.

 

 

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[1] Christine Jorgensen, Christine Jorgensen: a personal autobiography, Cleis Press, 2000. La autobiografia di Christine Jorgensen, alla nascita George Jorgensen, è la prima autobiografia transessuale ad avere risonanza internazionale. Una delle caratteristiche principali di questa nuova forma autobiografica è la presenza di una introduzione/giustificazione medica della transizione, affidata alla figura del dottor Harry Benjamin. Benjamin rappresenta l’autorità esterna e scientifica, e pertanto indiscutibile, attraverso la quale si legittima la condizione di transessualità. Così, la disforia di genere, trattata da un punto di vista meramente scientifico, entra -di fatto- nella letteratura ma come patologia congenita da legittimare attraverso l’autorità scientifica e non come soggetto politico. Cfr. Elisa A., G. Arfini, Scrivere il sesso: retoriche e narrative della transessualità, Meltemi Editore, 2007.

[2] Marcasciano, P. (2007), AntoloGaia. Vivere sognando e non sognando di vivere: i miei anni settanta, Alegre

[3] Tarantina, Romano, G. (2013) La Tarantina e la sua dolce vita, Ombre Corte

[4] Nel corso della narrazione la Tarantina fa riferimento ad altre transessuali che abitavano il centro storico di Napoli, e in particolare i Quartieri Spagnoli, sia per mantenerne viva la memoria, sia per trasmettere quel forte senso di comunità familiare che ha caratterizzato gran parte della sua vita.