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Fernanda Farias De Albuquerque

Maurizio Iannelli

princesa

 

 

Brevi note di contesto di Maurizio Iannelli

Princesa

Intervista

Glossario

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Brevi note di contesto

di Maurizio Iannelli

 

Una crisi profonda portò Fernanda sulla soglia dell’irreparabile. Quel giorno, in quel momento, la scrittura irruppe tumultuosamente nella sua vita. Giovanni, che a sua volta scriveva brevi raccontini autobiografici sulla sua esperienza di pastore, le consigliò la medicina: scrivere per tenersi insieme, per resistere all’azione devastante della reclusione, per non dimenticare di essere nati liberi. Anch’io, che nel frattempo stavo riordinando i suoi fogli sparsi, venni coinvolto in quella pratica vitale. Accadde così che per oltre un anno quaderni e bigliettini viaggiarono tra la mia cella, quella di Giovanni e quella di Fernanda. I nostri pensieri, le discussioni, le nostre giornate, deviarono bruscamente per territori inesplorati. Fernanda ci introdusse in un mondo sconosciuto, quello dei transessuali. La sua scrittura produsse altra scrittura, la mia. Lentamente, l’una rimandando all’altra, ci aprimmo lo spazio per l’incontro, la reciproca conoscenza e infiniti altri giochi sottratti allo sguardo dei guardiani. Come tre funamboli ci inseguimmo, incerti, lungo il filo di una spirale epistolare che ci portò oltre le mura, oltre il carcere. Così Princesa è nata. Da un incontro irregolare, da tre storie, tre persone che approdano al carcere lungo itinerari diversi: la lotta armata delle Brigate rosse il mio, la prostituzione transessuale quello di Fernanda, la vita pastorale e la rapina quello di Giovanni. 

Lo scenario dell’incontro fu Rebibbia. La scena quella dell’arrivo nel reparto G8 di un gruppo di brigatisti in piena crisi d’identità. La lotta armata era finita, le antiche certezze che li avevano tenuti insieme sgretolate 1. Venivano da lontano, da migliaia di giornate sempre uguali, assuefatti ai segni di un piccolo universo esclusivamente maschile. Tra loro c’ero anch’io. L’incontro con i trans in principio ci disorientò. Profumi di donna arrivarono ad olfatti disabituati; gonne, calze e reggiseni stesi alle finestre spezzarono le continuità monotone del precedente panorama carcerario. Per noi, i rivoluzionari di un tempo, irrigiditi dalle fasciature strette dell’ideologia, quei corpi fotocopiati da riviste sexy, bloccati nel transito da un sesso all’altro, costituirono un ulteriore attentato al vecchio modo di condursi in carcere. Come rispondere alle loro richieste di essere chiamate al femminile? Alle loro avances esagerate? Ma soprattutto, come interpretare quei nuovi fantasmi che di notte iniziarono ad abitare i nostri sogni? 2

Ci dividemmo in due partiti. Quello degli indifferenti, di coloro che, suppongo con sforzi inauditi, decisero di rimuovere e mettere a tacere ogni emozione. E quello di chi, con mille autogiustificazioni, diede ascolto ai sentimenti contraddittori di attrazione e repulsione che quelle ambiguità inducevano. Io partecipai a quest’ultimo e conobbi Fernanda tramite Giovanni.

Giovanni è un pastore sardo. Sedici anni fa, lui ne aveva diciotto, scese dal monte Alzu in cerca di fortuna, entrò in una banca a mano armata e trovò, unito alla condanna, anche un destino: l’ergastolo. Mi venne a salutare, c’eravamo conosciuti dieci anni prima nel supercarcere di Fossombrone. Gettò uno sguardo esperto alla mia nuova sistemazione e mi informò che l’inquilino che mi aveva preceduto nella cella l’aveva appena abbandonata in fretta e furia appendendosi con una corda al collo. Ci abbracciammo, fummo felici di rincontrarci. Poi se ne andò, aveva un appuntamento. C’era Fernanda che l’aspettava alla finestra, dietro una rete fitta che affacciava sul campo di pallone e separava la sezione dei transessuali. Attraverso le sbarre lei gli raccontava del Brasile, dell’Amazzonia, della sua storia di prostituzione. Lui della Sardegna, delle sue asperità, della sua vita. Inventarono una loro lingua, costruirono un mondo. Lui la seguì per tutta la durata del processo e, dopo la condanna, scrisse per lei istanze e richieste burocratiche per farle ottenere qualche giorno di libertà. Giulietta e Romeo, così scherzosamente li chiamavano gli altri detenuti. Ma il carcere è vigliacco, e nello scherzo c’era aggressione e cattiveria. In quel periodo chi offriva una parola ai “froci” veniva stigmatizzato violentemente dagli altri detenuti. In molti volevano allontanare da sé e dalla sezione quelle vicinanze contaminanti. Ma Giovanni del carcere e dei carcerati ne aveva avuto abbastanza. Quindici anni tra quelle mura erano troppi per prestare ascolto a quelle voci e i racconti di Fernanda continuarono a riempire le sue giornate.

Ad ogni passo i funamboli rischiano il vuoto, ondeggiano, senza la certezza della terra sotto i piedi. Fernanda, tra una pagina e l’altra della sua scrittura, precipitò cento volte. Perse il suo equilibrio per gli inciampi di una identità sessuale continuamente sottoposta a tensione, sempre rimessa in discussione. Oscillò paurosamente alla brutale comunicazione della sua sieropositività, per la lontananza della sua famiglia, per le brutalità del carcere. Le mancò la terra sotto i piedi, si aggrappò a noi. E noi a lei. Perché, sia io che Giovanni affannavamo un senso, un tempo, una identità diverse da quelle eterne scandite dal nostro carceriere. E per due anni la scrittura di Fernanda sopportò, senza spezzarsi, anche il peso dei nostri interrogativi, i silenzi, le riprese e gli abbandoni.

Per comunicare con Fernanda partecipai e contribuii al farsi della “nuova lingua”. Alla variazione, scritta e orale, che risultò dalla chimica delle nostre lingue materne. Il portoghese, l’italiano e il sardo. Di quest’ultimo, negli scritti originali di Fernanda, ci sono tracce deliziose che rimandano al suo maestro. Nata solo per noi, la scrittura originale è stata successivamente manipolata per renderla accessibile ad un pubblico più ampio. Cionondimeno, mani e provenienze culturali diverse sono forse rintracciabili anche nella sua stesura ultima.

Princesa, al dunque, non è altro che un frammento compiuto di una storia più larga che va oltre il testo. Una storia che potrebbe iniziare dall’ultima riga del libro: dal carcere e dalle sorprese di un incontro. Il compito di renderla visibile al lettore è stato affidato a queste brevi note introduttive.

L’idea di fare di Princesa un libro mi venne suggerita da Renato Curcio, l’editore intendo, nonché compagno di viaggio e testimone di questa traballante avventura. Un ringraziamento particolare lo devo anche a Giorgio Benfenati, per la pazienza con cui ha sopportato e sostenuto questo tentativo. E a Ombretta Borgia e Giancarlo Simoncelli per l’aiuto datomi nella revisione ultima del testo e nella compilazione del glossario. Naturalmente i limiti e le insufficienze appartengono per intero agli autori.

 

 

 

Princesa

 

Avevo sei anni e Cícera Maria da Conceição, mia madre, stanca del lavoro nei campi mi raccoglieva tra le sue braccia e mi adagiava nel letto grande. Tra la veglia e il sonno la sentivo, la sento ancora, mentre mi sfila dolcemente pantaloncini e camicetta.

Manuel Farias de Albuquerque, suo marito, era morto che lei mi teneva in grembo. Non prima però di aver messo al mondo due mie sorelle e un fratello. Alaíde la più grande, Aldenor il primo maschio e Adelaide. Tutti sposati, tutti emigrati nelle città grandi del Brasile. San Paolo e Rio de Janeiro.

L’ultima a lasciare casa fu Adelaide. Álvaro la corteggiava, lei rimase incinta. Cícera infiammò il municipio. Lasciò i campi di mais e di cotone, precipitò sul prete, sul prefetto. Reclamò il suo, di lei e di sua figlia: un matrimonio, si doveva fare. La famiglia di Álvaro, in principio, si oppose alla pretesa. Poi donna Inacina intervenne, parlò con tutti, mise a posto tutto. Si pianse in chiesa, si festeggiò in fazenda. Per me e i miei cuginetti guaranà e dolce di goiaba. Per loro, i grandi, liquore di jurubeba e churrasco. Una festa nordestina. Un vitello e due tacchini furono uccisi. Álvaro portò via Adelaide. Io e Cícera rimanemmo soli.

Nel cigolio del grande letto, ogni sera, dopo che sole e mais l’avevano consumata, raccoglievo il suo primo sospiro di sollievo. Mamma, dov’è mio padre? È morto Fernandinho. Nessuno prenderà il suo posto, né per me, né per te. Tutte le sue lacrime erano per Manuel Farias, la sua solitudine. Io mi rannicchiavo dentro quel sentimento, lei mi stringeva al seno.

 

Io ero la vacca. Genir il toro, Ivanildo il vitello. 3 Camicette e pantaloncini sfilavano via in mezzo al bosco. Lontano da tutti, era il segreto. Genir muggiva e m’inseguiva. Una fantasia di spinte, toccamenti e fiato grosso. Montava la vacca, indiavolava sopra di me. Si dimenava, cucciolo avvinghiato al piede del padrone. Pisello di bambino e strofinìo. Ivanildo il vitello, cuginetto trafelato, s’infilava muso muso in quell’inferno. Inumidiva e succhiava sotto la mia pancia. Oh, Ivanildo cerca la mammella! La mia piccola mammella. Inghiottita, mozzicata. Un solletico, un brivido di gioia. Con Genir appiccicoso e a fiato spento il gioco era finito. Io sfinito. Ma Ivanildo rilanciava: Ehi, c’è la pecora e il montone, il gatto e la gatta. Una domenica zio João sbucò dal nulla e ci scoprì. Prendemmo tante botte, poi riferì tutto a Cícera.

 

Ragazzini – roba del diavolo! 4 Presi botte anche da lei. Intervenne zia Maria, la moglie di João: Cícera basta! Ma non vedi che è un bambino, che sono soltanto giochi di bambini!

Iniziò la grande vigilanza, il controllo. Genir e Ivanildo insistevano: Zia Cícera fai venire Fernandinho a giocare con noi! No, c’è da fare in casa, ci sono i semi da separare. Ma i semi li mischiava lei, io lo sapevo, per tenermi con sé: Fernandinho, vieni a farmi compagnia. Vieni a separare il mais dai fagioli!

 

Quando l’insulto comincerà a camminare col mio nome, dopo l’Ave Maria della sera, inizierà a sussurrarmi: Ormai sei grande, perché non dormi nel letto che era di Aldenor. No, ti prego, sogno la foresta. C’è il cane che mi morde, l’Uomo Nero che mi mena. Sono i racconti del tuo spirito, mi tranquillizzava. Quando dormi lui parte in viaggio e vede e sente tante cose. Poi torna e ti racconta. Sono questo i sogni. Cose belle, cose brutte. Se il giaguaro ti spaventa o l’Uomo Nero ti molesta, copriti con la maglietta. Non dormire nudo e non avrai paura. Ma se lo fai arrabbiare lui non torna più, e allora sei in pericolo. C’è malattia e morte.

 

Facevo la pipì a letto, mi toccavo fronte e spalle con il segno della croce, sognavo la foresta. Continuerò a bagnare le lenzuola e dormirò con lei fino a quattordici anni. Con la maglietta e l’incubo dell’Uomo Nero fino a oggi.

 

Mamma, come nascono i bambini? È Dio che li porta con l’aereo di mezzanotte. Sono nato anch’io così? Sì, Fernandinho. Al mattino introdussi la variante. Mi sdraiai su un letto d’erba secca ed aspettai, occhi al cielo, aereo e figlioletto. Giocavo con Josefa il gioco della famigliola.Casetta, pentoline, e ruoli familiari. Io, la madre. Ma non era mezzanotte e lei, la cuginetta, inviperì peggio di un urutú: Oh, ma tu non sei femmina, tu sei maschio!

 

Fernandinho è meglio di una figlia femmina, si sveglia presto e mi porta caffè e tapioca dolce al letto. Lava i piatti e vuole fare anche il bucato. Nemmeno Alaíde e Adelaide a sette anni facevano tanto.

Cícera parlava così, di me, a donna Inacina. Io sono lì, che ascolto di nascosto pieno d’orgoglio e contentezza.

 

Donna Inacina e le sue figlie: Maria Aparecida e Maria das Graças. Arrivavano nella nostra casa dopo il tramonto. Vedova da poco, Inacina teneva le due figlie sottochiave. Per via di quel diavolìo di maschi che arruffa intorno alle bambine senza padre, diceva. Le portava da noi a sbucciare fagioli e sgranare mais. Le due vedove, le due figliole, io con loro. Fuoco di legna, lampada a gas e storie di trancoso 5: favole e leggende nordestine.

Inacina sapeva raccontare. Era un incanto. Noi intorno, noi recitavamo. Maria das Graças cominciava con la sua certezza: Fernandinho è il principe ed io la sposa. No, ribattevo, anch’io voglio sposare il principe! Oh! Ma tu sei maschietto e non femminuccia, non puoi! Perché no? Anch’io voglio il principe azzurro! No! Tu non puoi! Ed allora guazzabuglio e bisticcio. Maria Aparecida mi difendeva: Sì, anche Fernandinho sposerà il suo principe azzurro! Dolce Aparecida.

 

Allevamenti e piantagioni disegnano terra piana a nord di casa Farias. Ma un colpo d’occhio a sud rivolta la veduta in verde umido, uccelli e cacciatori. Un ristoro d’ombra fitta, ritaglio antico di foresta rosicchiata. Spianata. Molte ore di cammino prima che la desolazione della caatinga 6 – dimora di diavoli, banditi e santi – non bruci tutto nella fissità del deserto. Terra sbriciolata, passi che affondano, rocce, macchie di spine e arsura. Veloci, ad est, in direzione di Remigio, un trivio di autostrade a sei corsie per Campina Grande, João Pessoa e per Picuí.

 

Due mezze noci di cocco furono il mio primo seno. Davanti allo specchio grande, Cícera mi sorprese e botte. Mi coprivo con la mano per vedermi come Aparecida anche tra le gambe. La mia fantasia, pancia tonda e fessura di bambina.

 

Avevo sette anni e non sapevo cosa fosse il peccato. I grandi mi nascondevano le parole, io gliele rubavo: Vedi come si comporta Fernandinho? Non gioca come gli altri bambini, vuole sempre fare da femmina per loro!

Le bambine mi allontanavano: Oh, ma tu sei maschio, vai coi maschi! Josefa e Aparecida mi difendevano, ci sarà sempre qualcuno che mi difenderà. Allora rimanevo, le sfidavo. Camminavo come loro, le femminucce. Aumentarono i controlli. Cícera mi affidò a Aldir. Aveva quindici anni, divenne il mio guardiano. Lei chiedeva, lui riferiva.

 

Al sabato, a Remigio, vendono pesce secco e erbe miracolose. Scarpe e biancheria per i contadini. È la fiera. Camion, pullman e saltimbanchi arrivano da Campina Grande, da Solânea. Al pomeriggio tutti alla partita. Arrivavamo a frotte da tutti i municipi per ammassarci ai bordi del prato verde. Aldir, controvoglia, mi stava sempre a fianco. Tifo e sberleffi per i giocatori, per me gli insulti: Ecco il veadinho! Ecco l’uomodonna! Anche Genir e Ivanildo facevano comunella, ridevano di me. Prendevo pietre dure e gliele tiravo addosso. Uomodonna siete voi figli di puttana! Qualcuno mi veniva sotto: Cosa hai detto? Ho detto figli di puttana! Maledetti! Aldir mi difendeva. Aldir, tu difendi un veadinho! Ma cosa ve ne importa, cosa vi frega di quel che è. Ah, tu lo difendi perché ti piace! Ma Aldir era il più forte, nessuno aveva il coraggio di picchiarlo.

 

Senti Fernandinho, è vero quello che dicono di te gli altri bambini? Che cosa? Dicono che ti piace fare le cose delle donne. No, non è vero Aldir! Ma con Genir lo fai! Togliti i pantaloncini, andiamo al fiume a fare il bagno. Scappai impaurito fuori dal bosco. Due salti, Aldir mi riacchiappò. Era il più forte di tutti, mi gettò a terra. Provò, forzò. Desistette. Si spaventò del mio spavento. Io sette anni, lui quindici. Non dire niente a Cícera! Se no ti uccido!

 

Aldir, io desideravo tanto che lui mi volesse bene. Semplicemente, io volevo il suo bene. Lo sapevo, non mi avrebbe ucciso. Io ero la vacca, mi piaceva essere femmina con le bambine, coi cugini. Non capivo la diffamazione. Veado – parola al vetriolo, intuivo l’offesa. Chiaramente, ma non sapevo che dentro quel suono c’era tutto il mio destino. Riparavo da Cícera, dove arrivavano i suoi occhi era territorio rispettato. Da tutti. Intorno a lei nessuna derisione ad alta voce. Solo qualche sguardo storto. Con lei vicino ero obbediente, con lei lontana svergognato.

 

Seu José deixa eu ver seu caralho! Signor José fammi vedere il cazzo! José si guardò intorno senza successo. Bestemmiò San Sebastiano e continuò verso la fiera. Era sabato e passarono cinque José sconosciuti. Insultarono anche loro il santo protettore e continuarono. Poi, in lontananza, vidi apparire Arlindo. Lo conoscevo bene, era del nostro municipio. Avanzava barcollante con il sole a mezzogiorno e il primo vino in corpo.

Signor Arlindo fammi vedere il cazzo! Ma chi è il diavolo che parla! 7 Dove sei nascosto indemoniato? Si mosse in cerca nella mia direzione. Presi coraggio e fazzoletto in testa mi alzai tra l’erba alta. Sono io, Fernandinho! Cosa vuoi, ragazzino? Arlindo fammi vedere il tuo pisello! Se ti sente tua madre t’ammazza! Cícera non c’è, è via per il parto di Adelaide. Se me lo fai vedere ti faccio mangiare gallina e bere liquore!

Lo presi per mano, io sette lui trent’anni. Lo chiusi in casa e volai da Severino, all’emporio. Presi a credito una bottiglia di jurubeba. Per Cícera, inventai. Tirai il collo a una gallina. Senza paura, freddo come un assassino. La spennai, mi alzai sulla punta dei piedi per metterla nel pentolone. Ora porte e finestre sono chiuse e il cibo cuoce. Lui è seduto, beve lento e suda sale. Mi guarda e zitto. Non lo perdo mai di vista mentre faccio. È sempre lì, pesante sulla sedia. Impaurito. Nel paese, nella campagna, era deriso dagli uomini e scartato dalle donne. Arlindo, insistetti, mentre la gallina cuoce me lo fai vedere? No, prima si mangia. Mangiò gallina mezza cruda e si ubriacò definitivamente: Spogliati, mettiti nudo Fernandinho! No, Arlindo, voglio solo vedere il tuo cazzo! Si alzò, perse e ritrovò l’equilibrio. Oscillando, si aprì i pantaloni e lo tirò fuori, eretto e grande. L’impugnò, il ramo duro. Sudava, strattonava come un cavallo al tiro. Sfigurò in volto dall’eccitazione. Io, terrorizzato. Avrei voluto cacciarlo via, l’animale. Provai a tirare fuori un grido, uscirono solo lacrime. Mi immobilizzò sul letto grande. Tra le sue ginocchia divenni più piccolo di un uccellino. Ebbe un po’ di sale in zucca, la bestia. Rinunciò, non spinse dentro. Non riesco a dimenticare: io che piango e lui che s’agita e s’affanna. Poi, sulle mie spalle, uno sputo caldo e appiccicoso. Ha finito, io atterrito. Bestiolina impaurita. Zia Maria bussò forte alla porta, lui scappò dalla finestra. Ma come, Fernandinho, una gallina intera tutta per te? Balbettai una bugia, lei vide il disordine del letto. Il mio tremore, la reticenza. Oggi ne sono sicura, lei capì tutto. Mi trascinò via sollevandomi a un palmo da terra. Non mi lasciò più solo fino al ritorno di mia madre.

 

Doveva accadere, accadde. Donna Cícera, c’è da sdebitare una bottiglia di jurubeba, l’ha presa Fernandinho il sabato di fiera. Severino rammentò a mia madre il debito.

Cosa hai fatto del liquore? L’ho bevuto tutto mamma! Chiuse porte e finestre, dall’armadio tirò fuori il ramo di marmeleiro: cespuglio di caatinga, spinoso. Legno fine e resistente che lascia lividi sottili come lamettate. Mi picchiò come mai aveva fatto. Tanto, tantissimo, fino a farmi credere che m’avrebbe ucciso.

Perché tu mi meni e zia Maria non mena Genir? Perché voglio allevare un figlio e non una canaglia. Se fai le cose del demonio andrai in carcere e all’inferno!

Nel grande letto quelle vergate mi ritornarono trasformate in tenere carezze. Dolci e senza fretta, come le ninnenanne che mi addormentavano.

 

Con il primo sole, dopo le grandi piogge, il piccolo fiume in piena dava il suo spettacolo. Uomini e donne scendevano per ammirare la sua potenza, la sfilata. Buoi e cavalli gonfi d’acqua, tronchi d’albero degradati a zattere impigliate di carogne. Talvolta persino d’uomini e donne irriverenti. Barche rovesciate, baracche ridotte in mille pezzi galleggianti. Mi unii al piccolo corteo, alla paura e allo stupore che lo tenevano insieme. Tra loro c’era anche Paulo.

Al sabato, durante la partita, lui assisteva alla mia diffamazione ma non diceva niente. Non mi accusava, non mi difendeva. Se ne stava lontano, come la sua ricchezza. Durante i festeggiamenti del toro il padre lo voleva sempre a fianco, era il suo vanto, l’erede. La sua famiglia finanziava ogni anno la ricorrenza contadina, il bumba-meu-boi.

Si distaccò dal gruppo giocando con il cane, lo seguii lungo la riva. Fin dove il fiume si restringe e il bosco preme ai suoi fianchi con l’ubuzeiro e il barauna. L’ultima strettoia prima che il salto d’acqua consumi rapide, tumulti e tonfi in uno specchio chiaro e trasparente. Un’acqua cheta, un laghetto. Paulo iniziò a bagnarsi. Entrai anch’io. Zoccoli in mano, bagnato alle ginocchia. Cosa fai qui? Sono venuto a vedere il fiume! Non vedi che è gonfio, che per te è pericoloso? Sì, lo vedo, non ho paura.

Fernandinho, è vero che sei un veado? Veado. Di nuovo quella parola velenosa come il coral, la serpe del deserto. Risuonava sempre dove c’ero io. Non mi arrabbiai, non gli risposi.

Si avvicinò, sapevo cosa stava per accadere. Non scappai. Tirai fuori un po’ di voce, una vocina: Lasciami, non voglio! Per me era ancora un gioco, io la vacca. Ma lui spinse forte e mi penetrò. Era la prima volta. Pancia e testa rivoltarono in supplizio. Lui indiavolò nel mio dolore. Brevissimamente, vidi l’acqua tingersi di rosso. Sbiancai dalla paura. Vomitai e piansi per il male, per il rimorso. “Se fai le cose del diavolo andrai in carcere e all’inferno!”. La febbre salì improvvisa, s’impossessò di me. Tremavo di paura, di vergogna. Cosa mi hai fatto! Anche Paulo divenne bianco in faccia. Ma tu volevi! disse. Era vero, io volevo. Mi faceva male, ma lo desideravo. Semplice e inaccettabile, è questo il mio ricordo. È così che andarono le cose. Corse su e giù per il fiume in cerca d’erba, pinhão roxo, quella che ferma il sangue, lo coagula. Il cane gli girava sempre intorno, giocava, saltellava. Paulo provò ad asciugare le mie lacrime e a tamponare l’emorragia: Ma è la prima volta per davvero? Sì. Perché non me l’hai detto? Fernandinho, non devi dirlo a casa! Dì che sei caduto su una pietra appuntita, su un ramo. Di quello che vuoi, ma non dirlo!

Avevo otto anni, lui sedici.

 

Scotta! È pallido come un cadavere! Perde sangue dall’ano! Dobbiamo portarlo subito all’ospedale! Quel giorno Adelaide e Álvaro erano a casa. Tranquillizzarono Cícera, mi adagiarono sul sedile posteriore della macchina e partirono per Remigio. È strano – pensò Adelaide a voce alta – come è possibile cadere su di un ramo e ferirsi l’ano? Dal medico sapremo la verità, le rispose Álvaro alzando il tono della voce. Come a dirmi: È inutile che ti lamenti lì di dietro, non mi fai fesso, io so quello che hai fatto! Diffidava. Álvaro ha sempre diffidato di me, già prima di sposare Adelaide. Mi guardava storto, andava sempre cercando conferme al suo sospetto. Non aveva il coraggio di dichiararlo a Cícera, non poteva, lei non glielo avrebbe permesso. Aspettava che una evidenza parlasse anche per lui. L’avevo capito bene, e allora diffidavo anch’io. Lui indagava una conferma, io gliela nascondevo. Ora però viaggiavamo verso il medico, verso la verità. L’autorità indiscussa. Quasi come il prete o il prefetto. Invece no. Álvaro non ebbe soddisfazione. Il dottore mi medicò, poi, da solo, volle parlarmi: Altro che ramo d’albero, ragazzino! Non dirò nulla, ma prometti che non ti farai più indemoniare! Lo prometto, non lo farò più.

 

Izael Diaz, vent’anni. Maria Nazareth Monteiro, ancora bella e senza età. Si dividevano i due stanzoni della scuola elementare municipale del Sítio. Una confusione di trenta quaranta bambini tra i nove e i sedici anni. C’erano Aldir, Genir, Josefa, Aparecida, Maria das Graças, Francisco, Rildo, Robson, Luíz. C’ero anch’io, avevo nove anni. C’erano tutti, e con loro la mia diffamazione: Signor Diaz, ha visto Fernandinho! Cammina come una femmina! Rildo vociava come un forsennato. Izael Diaz mi chiamò: Fernandinho, cammina, facci vedere come cammini! Arrossii di vergogna, ma diedi lo spettacolo. Ha visto maestro? Cammina come una femminuccia, come un veadinho! Eh, ragazzi, quando Fernandinho sarà più grande andrà a San Paolo o a Rio – soldi facili per lui! Lo diceva Izael Diaz, il maestro, e tutti sghignazzavano.

 

“Veado, vergognati, impara ad essere uomo”. “Veado, ti piace prenderlo nel culo”. Erano pallottole di carta, me le sparavano addosso scritte su fogli ciancicati. Mi arrivavano sulla schiena mentre stavo alla lavagna. Basta, figli di puttana! Quando usciamo fuori vi spacco la testa con una pietra! Chiedevo aiuto a Izael Diaz. Lui ancheggiava, mi rinfacciava il verso con voce effeminata: Parla, dimmi Fernandinho, cosa vuoi? Zittivo, pieno di vergogna.

 

Rildo mi odiò per tutti gli anni della scuola. Il motivo è semplice: non gli ho mai dato il culo. Davanti ai grandi m’insultava: Maschio-e-femmina, impara ad esser uomo! Da solo piagnucolava: Fernandinho, deixa eu meter meu caralho no seu cu. Fernandinho, lasciami mettere il cazzo nel tuo culo. Cazzetto di bambino. Mi incastrava nel bagno, insieme a Robson e Luíz: Spogliati uomodonna, se no ti meniamo! Infiammava le bambine contro di me. Estela mi attaccò una gomma da masticare tra i capelli. Presi una pietra e le spaccai la testa.

 

Si masturbarono nel bagno, raccolsero l’attaccaticcio in una mano e m’impiastricciarono la faccia. Piansi di rabbia, strappai tutto. Libri e quaderni. In cambio ebbi botte e punizione.

 

Aldir, perché non mi difendi più? Non posso Fernandinho, non posso mostrare che ti voglio bene. Mio padre mi caccerebbe via da casa, Cícera mi ucciderebbe.

 

Aldir, il mio guardiano. Dopo Paulo sarà con lui che inizierò la mia carriera nel peccato. Non provavo sentimento come adesso. Non lo so. Lo facevo per gioco, poi mi lamentavo, mi dicevo: Fernandinho, non sei una femmina!

Io desideravo soltanto il suo bene. Per questo andrò con lui. Per questo mi azzufferò con la sua amica, la fidanzatina.

 

Che begli zoccoli, mamma! Me li posso mettere? Ma sono da donna Fernandinho! Ma sono belli mamma! La spuntai: Va bene, solo dentro casa altrimenti ti dicono cose brutte! Cícera se ne andò nei campi, io a scuola. Prima però presi il suo smalto rosa brillante e mi pitturai le unghie dei piedi. Infilai gli zoccoli e mi avviai per la stradina bianca che si attorcigliava verso il paese. Arrivai presto e nascosi i piedi sotto il banco. Maria da Guia, tredici anni di malignità e vista d’avvoltoio, non si fece sfuggire la novità: Maestra! Venga a vedere i piedi di Fernandinho! Venga a vedere, c’è l’uomodonna! Ma Maria Nazareth Monteiro non era Izael Diaz. In classe mi difendeva. Vide smalto e zoccoli, mi accarezzò i capelli. Zittì la derisione. Poi mi parlò da sola: Fernandinho, ma queste sono cose da donna, unghie pittate, zoccoli. Tua madre ti ha visto uscire vestito così? No, non mi ha visto.

 

Cícera mi rase i capelli a zero. Tirò fuori il marmeleiro, minacciò di mandarmi al Febem, il collegio minorile. Un correzionale.

Quel giorno fu un inferno, litigai con tutti. Finita la lezione, lungo la strada, Genir e altri due mi aggredirono lanciandomi delle pietre: Uomodonna! Veado! Rispondevo: Veado sei tu, Genir! Mio padre ti picchierà Fernandinho! Allora mio cognato ucciderà tuo padre! Mi assalirono in tre e mi picchiarono a sangue.

 

Le voci giravano, io le catturavo. “Non si può più tenere a scuola un bambino che si comporta come una femmina”. “È così perché non ha un padre per farlo diventare maschio”.

 

Genir parlava con una gallina. Era solo, seduto in mezzo alla mandioca alta. Avevo ancora addosso i segni della zuffa e i capelli rasi a zero. Rotolai un sassetto nella sua direzione, interruppi il dialogo. Non si girò nemmeno: Lo so che sei tu, uomodonna, vieni qui! Vengo se facciamo il gioco del toro e della vacca. Sorrisi verde foglia, ci spogliammo. Abbassai le spalle a terra e mi mostrai. Lui non muggì, non si dannò sopra di me in strofinii. Forzò, ma non per gioco. Spinse dentro, ma saltò dall’ombra al sole. Urlante, s’alzò col pene rosso sangue in mano. Il filetto s’era rotto. Scappò via chiedendo aiuto aiuto. Rimasi insieme alla gallina, nascosto all’ombra dell’erba alta. Mi ha morso un cane tutto pelle e ossa! Raccontò al padre e ai compagni di classe. Nessuno gli credette, nessuno pensò a me. Al mio sorriso, che era bello e soddisfatto come una vendetta.

 

Ero libero, era il carnevale. Niente insulti, nessuno sguardo storto. Avevo dieci anni e Cícera mi lasciò fare. Raccolsi i miei capelli dentro un fazzoletto verde e azzurro che annodai sulla fronte. Infilai una veste lunga di cotonina bianca. Mi dipinsi gli occhi, spalmai le labbra di rossetto e calzai le scarpe alte di mia madre. Finalmente! Il Sítio organizzava il suo corteo. Irriconoscibili, i maschi si nascondevano dietro spaventose maschere di toro, capra e montone. Maschere di legno e di cartone. Altri uomini travestivano da donna. Avevano grandi pance, come Adelaide prima del parto. Le donne libere svestivano da puttane. Provocavano, perché senza il bordello non c’è nemmeno il carnevale, si diceva. Tutto si legava al ritmo lento e antico dei tamburi. Pentole in metallo e secchi preparati per l’evento. Al Sítio non avevamo orchestra o banda con strumenti musicali, solo percussioni. Il tam tam era assordante. La polvere impastava sudore e ritmo lungo la stradina per Remigio. La banda musicale ci aspettava nella piazza del paese per rilanciare in frevo, balli e canti.

 

Aldenor era impazzito. Colpa di sua moglie, donna d’alto rango. Lei voleva una vita libera, ebbe tre figli da allevare. Desiderava fare la signora, lui guadagnava da meccanico. Aldenor, Cícera lo stimava. Il primo maschio della famiglia, uomo serio e accigliato. Tutti lo ripetevano: Intelligente intelligente. Un esaurimento nervoso: Quella donna gli ha portato via la testa, dicevano al Sítio. Aldenor era pazzo, ma restava bello. Pelle bianca e azzurri gli occhi. Proprio come Cícera.

Avevo undici anni e lui tornò a casa senza moglie e figli, soltanto con la sua follia. Lo vidi masturbarsi e un impulso che non rinnegai mi portò da lui mentre dormiva. Lo avvicinai, mio fratello, con una carezza che sfiorò il suo gonfiore. Si svegliò, mi cacciò via. Riempì la stanza di passi avanti e indietro. Di parole furiose, avvelenate. Fernandinho è veado! Veado, per la prima volta quel suono odioso oltrepassò il confine, risuonò dentro la nostra casa. Cícera sentì, si spaventò. Chiamò la polizia e Aldenor venne internato in ospedale.

 

Sulla terra c’è la chiesa e il carcere. Chi va in chiesa va in cielo, chi va in carcere all’inferno. Cícera mi voleva in cielo e mi portava in chiesa. Gli uomini da una parte, le donne dall’altra. I bambini tutti mischiati fino a tredici anni. Per due volte, nel confessionale il prete mi incalzò:

– Rubi?

– Sì, qualche soldino.

– Calunni?

– No, non faccio diffamazione.

– Litighi?

– Sì, qualche volta, a scuola.

– Fai cose sporche?

– No!

(mentivo, non capivo)

– C’è un peccato che non riesci a dire?

– No!

Per penitenza ebbi in recita dieci Padre Nostro, dieci Ave Maria, dieci Salve Regina. La seconda volta andò diversamente:

– Rubi?

– Sì, qualche soldino.

(alla fiera mi compravo smalto e rossetto ma mi tenni il segreto)

– Fai cose sporche?

(silenzio)

– Fai cose sporche?

(divenni rosso di vergogna)

– Parla! Tu hai da dirmi e non dici! Fai cose sporche?

– Sì, le faccio.

– Con uomini o con donne?

– Vado con i ragazzi.

– Fai la donna per i tuoi amici?

– Sì, faccio la donna per loro.

– Se ci riprovi per te c’è l’inferno!

Triplicò la penitenza: E tra una settimana ti rivoglio al confessionale.

 

La stessa sera João Paulo mi prese per la gola e mi trascinò nel bosco: Ho il cazzo duro, cazzo d’uomo grande, veadinho! Gli altri sentivano e vedevano. Sghignazzavano. No, con te non voglio! Dopo l’esperienza fatta con Arlindo avevo paura dei grandi, andavo solo coi ragazzi. Ma lui mi prese per il collo e mi rassegnai ad annegare nella derisione, nelle urla, nell’incitamento bestiale. Ebbi un lampo d’odio: Lo dirò a tua moglie! Ai tuoi figli! Grugnì cinque parole, il maiale: Se lo fai t’ammazzo! Tre bastonate tra spalle e schiena mi stramazzarono per terra. Era sicuro, mi avrebbe ucciso. Ero sceso al fiume per vedere la pesca: traíra e curumbatá. In tanti, mentre ero a terra mi passarono vicino: Ma come, veadinho, prima ti è piaciuto adesso ti lamenti?

 

Se c’è un diavolo in mezzo a voi che si ritiri! Ero certo, il diavolo ero io. Cambiai di sette colori. Mi fissò dal pulpito, mise in silenzio l’anarchia dei maschi. La calamità mi pioveva addosso e riempiva anche la chiesa di insulti, appuntamenti segreti al fiume e peccati. “Se c’è un diavolo in mezzo a voi che si ritiri!”. Si fece il segno della croce in nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo e iniziò la Santa Messa. Io mi ritirai uscendo ad occhi bassi dalla chiesa.

 

Aldenor andava e veniva dall’ospedale. Riempiva la casa di parole: Cícera, stai creando un uomodonna, Fernando è veado! Lei faceva finta di niente, non sentiva più niente. Litigare con un matto è molto brutto, disperato. Un giorno ci fu un gran casino. Prese tutti i miei libri e li strappò. Cícera lo fece internare nuovamente. Ritornerà un mese dopo per non tornare più: È scappato nella caatinga, diranno i contadini. Dove la terra sbriciola in polvere, affossa i passi e asciuga gole.

Non partecipavo più alla ginnastica dei maschi. La direttrice – ora frequento le scuole superiori – mi teneva all’erta: Fernando, non ho nulla contro di te, ma qui dentro ti devi comportare bene. Se vengo a sapere che fai da donna per qualche ragazzo ti mando via e nessun collegio ti accetterà più. Fuori fai quello che vuoi. Ed io facevo, frequentemente. Arrivavo per primo e uscivo ultimo per evitare insulti e confusioni. In classe, di nascosto, mi chiedevano appuntamenti al fiume. Io andavo.

 

Francisco era un amico. Sapeva bene chi ero: veado, veadinho, ma non voleva che altri, per questo, mi discriminassero. Una sola volta. Una volta soltanto manifestò una intenzione maliziosa nei miei confronti. Una curiosità. Dissi di no, e non certo per vergogna. Ma per mantenere un amico. Era l’unico che per i sette chilometri di strada che separavano la fazenda dalla scuola di Remigio mi offriva una compagnia. Poi anche lui mi venne stretto, soffocante: Dai, Fernando, cammina come un uomo, smettila, non dare spettacolo! Chi mi vedeva ormai capiva, e a me piaceva. Quei sette chilometri erano la mia libertà e decisi di prendermela tutta. Dissi a Cícera che avevo litigato con Francisco e che da quel mattino avrei fatto un altro percorso per andare solo a scuola.

 

La nuova strada taglia per boschi e campi, trovo sempre chi mi avvicina. Contadini poveri, cacciatori. Gli uomini non mi spaventano più. Li cerco, mi aspettano. Faccio io, quello che voglio io. Francisco insisteva, mi metteva in guardia. È pericoloso andare solo per il bosco, c’è il gatto selvatico, il serpente! Povero Francisco, la sua ingenuità.

 

Mamma, vado a cercare frutta nel bosco. Non mi rispondeva. Cícera non sentiva, non aveva più occhi per guardare. Imbu, cajarana, pitomba, tutta frutta di foresta, non la raccoglievo. Mi truccavo di nascosto, un accenno. Mi annodavo il fazzoletto in testa come le contadine nordestine. Qualche volta mettevo anche gli orecchini. Scalavo il cajueiro e ad ogni sparo dei cacciatori facevo voce e cantavo. Che fai qui ragazzino? Raccolgo frutta. Spaventi la selvaggina, torna a casa! No, se prima non mi fai vedere il cazzo! Il mio José imprecava il Santo ma io non lo mollavo, io sapevo come. Era la mia preda giornaliera. Nel fitto degli alberi cedevano – moltissimi – alla mia sottomissione. Gli catturavo il desiderio negli occhi, tra le gambe. Senhor José deixa eu ver seu caralho! Parole magiche, terremotavano le loro teste con turbamenti e confusioni. Nel bosco il Principe con me regnava, io lo servivo. Con la bocca, con il culo.

 

Veado! Un giorno o l’altro ti infilo il fucile nel culo e te lo faccio uscire dalla bocca! Erano in cinque o sei. Uno di loro, capiterà altre volte, reagì male alla mia sfrontatezza. Non ti vergogni di fare da donna per i miei amici? Ma gli altri, da soli, erano tutti miei José. Si misero di mezzo, lo fermarono.

 

Ero solo, non so dire cosa cercassi dentro quelle teste dure, teste deboli. Nei loro sudori acri, appiccicosi, nei loro modi violenti, maneschi. Ma attraversai così i miei quattordici, quindici e sedici anni. Centinaia di incontri, appuntamenti. Tre volte a settimana, due José per ogni volta. È un conteggio per difetto. Ventiquattro appuntamenti al mese. Duecentosessantotto appuntamenti all’anno, per quattro anni: mille e cento volte, prima della mia partenza per Campina Grande.

 

Cícera non si rendeva conto, non si rassegnava: Fernandinho da grande sarà un sottufficiale, diceva. Uno zio organizzò tutto e venne il giorno della visita per l’ammissione al corso militare. La lasciai fare per non toglierle anche l’ultima speranza. L’ultimo straccio di dubbio. Aldenor, io – dove albergava l’errore? In lei? In noi? Fuori da tutti noi? Cícera viveva semplice: donne da una parte, uomini dall’altra. Ed io? La sua pelle s’era indurita, il suo volto si bagnava di lacrime silenziose: Fernando, domani il pullman per Campina Grande parte presto, andrai? Sì, mamma, andrò.

Entrammo a gruppi, ordinati per lettera iniziale, io con la “F” di Farias. Tutti nudi come v’ha fatto mamma! Un comando, voce roca di sergente. Tolgo soltanto la camicia, mi vergogno. Ho detto nudo! Obbedisco, abbasso i pantaloni, levo le mutande. Su di me cento occhi storti, occhi di diavoli. Aspettavano solo che io parlassi per avere la conferma, per iniziare con gli insulti. Un ragazzo mi rivolse una domanda: Anche tu vuoi fare il sottufficiale? Sì, risposi. Mi rise in faccia, il piscio di jena. Infuocò la stanza. Guardate cosa ci regala l’esercito! Farà contenti tutti, piselli grandi e piccolini! Ci fu una risata generale, lì dentro un brulichio di vermi. Squillò una tromba, addomesticò tutti. Arrivò il mio turno: Fai cinque passi avanti! Girati! Abbassati! Stringi forte il pene! Ebbi un’esitazione, me lo strizzò il tenente medico. Piegati in avanti! Mi aprì l’ano. Spinse con qualcosa: Fatto male? No! Che cosa sai fare? So cucinare! Ridono di nuovo, il vermicaio. Seguirono gli esercizi psicotecnici e di lingua portoghese. Sembrava finita, invece no, per me c’era una prova in più. Un sergente della commissione d’esame aprì una porticina laterale, s’accomodò sul divano e mi fece entrare. Il tempo di sedermi e lui ha già il cazzo fuori dai pantaloni, il carne moscia. I miei occhi si persero nel vuoto, non volevo. Inutile, si alzò, divaricò le gambe, me lo piantò in faccia. Fammi un bocchino! Reclinai la testa, abbassai lo sguardo, madonna dei dolori: No, non faccio. Fece un passo indietro e lo richiuse dentro i pantaloni: Tu ti travesti! Io negai, lui insistette. Come no? Sembri più donna che uomo! Sei mai stato con una femmina? Negai ancora, era vero; è vero: non sono mai stato con una donna in vita mia. E con gli uomini? Carne moscia mi guardava dritto in faccia, lo sentivo, leggeva bene nella mia coscienza. Presi di rosso e ammisi: Sì, soltanto tre volte, forzato. Forzato? Sì, forzato. Mi ero dichiarato, finalmente, e lui si rilassò: Ma come ti è venuta in testa l’idea di fare la domanda per essere arruolato? Perché non ti sei dichiarato prima delle prove? Avevo paura di andare in prigione. No, non andrai in prigione. La vita è tua e puoi dannarti come vuoi. Foglio di riservista, dispensato per sovrannumero. Non scrivo che sei veado, così avrai qualche problema in meno. Due soldati mi scortarono attraverso il vermicaio, fino all’ultimo cancello.

 

“Cícera rassegnati, Fernando non sarà mai, né contadino né militare. Lascialo venire da noi a Campina Grande, lavorerà in fabbrica. Álvaro lo aiuterà. Finirà le scuole con un corso serale”. “Ad un patto – lei si piegò – lui verrà in fazenda ed io in città due volte a settimana”.

Era il millenovecentottantuno e Adelaide, sorella cara, addolcì Álvaro e piegò Cícera al mio desiderio. Abbandonare la campagna, vivere in città.

 

Col buio della sera, nel giardinetto che avevo eletto a nascondiglio tiro fuori i miei travestimenti. Sfilo i pantaloni, infilo mutandine femminili. È la mia nuova libertà, un brivido. Una necessità. Strettissimi, gli slip raccolgono un sesso che maltratto. Che affondo nella pelle dei testicoli e tiro e schiaccio indietro tra le cosce. Nella stoffa delle mutandine, leggero, sul davanti, un solco verticale lascia intuire il segno di una fessura femminile. Un inganno, la mia fantasia. Poi, lunga fino alle ginocchia, indosso una gonna a pieghe blu che accoppio ad una camicetta beige con colletto e merlettini. Un trucco leggero, discreto, completa la preparazione. Sono pronta per la mia passeggiata cittadina. Incerta, su due scarpette femminili, esco dal giardino e affido la mia onorabilità a due libri stretti al petto. Io, una studentessa.

 

Eulina ed Eulália. Due cugine di città che non conoscevo. Ricche, elegantissime.

Eulália capì subito che la mia era una scusa: È per il carnevale, mi presti gonna e scarpe per le prove? Sorriso dolce e armadio aperto. Mi aiutava a scegliere, era attrice in un teatro. Custodì il mio segreto. Eulina, invece, era sempre distratta. Non mi guardava. Libri sul tavolo, libri sotto braccio. Era studentessa. Le rubai le mutandine e il modo di camminare la città.

 

La direttrice del Collegio evangelico, dove andavo per il corso serale, convocò una assemblea di studenti maschi. Dettò, con me presente, il nuovo regolamento:

– Fernando Farias non deve entrare nel bagno dei maschi nell’orario in cui è frequentato dagli altri. E che nessuno abbia l’audacia di provocarlo quando andrà da solo.

– Fernando Farias non deve venire a scuola vestito da donna, pena l’espulsione.

– Fernando Farias deve uscire dieci minuti prima della fine delle lezioni.

– Fernando Farias farà ginnastica il giorno in cui la palestra è libera. Ci sarà un insegnante volontario solo per lui.

Rimasero tutti zitti, intimoriti dalla fermezza dell’educatrice.

Qualche tempo dopo, sempre la direttrice, mi chiamò in presenza di otto professori: Farias, in questa scuola ci sono molte ragazze che hanno i fidanzati nella sua classe, non faccia nascere problemi. No, non ci saranno problemi. Sarò discreto coi miei appuntamenti. Andrò nel parco dell’Açude Novo, dentro stradine buie e senza vita. Sono ragazzi profumati, ingentiliti dalla città.

 

In fabbrica tagliavo la gomma per le suole delle scarpe. Un problema, una volta soltanto. Un José in tuta mi diede appuntamento al bagno, io accettai. Ci chiudemmo dietro la porta e lui trovò soddisfazione in fretta. Uscì per primo ma un altro José irruppe di prepotenza. Poi un altro ancora. Quell’infelice s’era messo d’accordo con due compari. Tutti sposati, mi desideravano. Dovetti rinunciare ad usare il bagno per evitare altri agguati e il licenziamento. Dopo quell’episodio ci furono soltanto scherzi e giochi di parole.

 

Vestito da studentessa ero felice. Imitavo una donna per trovare un uomo. Si vede, sono un travestito. Non ho le misure femminili, ma i libri mi proteggono, mi rassicurano. Cammino di sera, dopo la scuola, per vie quasi deserte, movimentate soltanto dalle luci delle macchine e da vetrine ancora accese. Campina Grande è cittadina educata, semplice, che respira ancora contadino. Trecentomila anime. Di giorno l’unico problema sono i ragazzini, il mio tormento. A grappoli mi squadrano, non me li tolgo più di torno: O veadinho!

 

Adelaide e Álvaro, con loro cominciarono parole dure e musi scuri. Per i miei rientri notturni, per il mio modo di parlare e camminare. Per i capelli che crescevano. A casa c’erano i nipoti ed io dissimulavo il vizio. Facevo il maschio, ma si vedeva.

 

Una notte, lungo rua Antonio Veloso, vicino alla stazione dei pullman, il mio cuore bussò forte. Aldir mi camminava incontro. Lui avanzava con passo contadino. Io con la gonna lunga e i libri stretti al petto. Non accadde nulla, non mi riconobbe e passò oltre. Ma la mia testa andò in confusione. Scappai in preda al panico verso il giardino dei miei travestimenti. Volevo fermare la paura. Ero agitato e non mi accorsi dei due poliziotti che mi seguivano. Aspettarono che frugassi nel cespuglio dove avevo nascosto i vestiti maschili. Poi, all’improvviso, mi terrorizzarono con un fermo o sparo! Credevano di aver catturato un ladro. Mi menarono, ebbero la verità. “Ma questo è il cognato di Álvaro!”. Una vergogna, uno schiaffo. Álvaro ebbe finalmente la conferma che cercava: Ora so quello che fai!

 

Un passo indietro. Sauro Afonso do Amaral, eccolo qui il problema. Quarantuno anni, avvocato e professore del Colégio Estadual do Bairro da Prata. Si era innamorato di me e io di lui. Lo conobbi nell’ospedale Antonio Targino. Mi avevano ricoverato d’urgenza per via di un misto d’uova, latte e ananas che si era imbizzarrito nella mia pancia. Appendicite, fu la prima diagnosi. Subito ridimensionata in semplice intossicazione. Cícera corse al mio capezzale, fu lei a presentarmi Sauro. Aveva avvicinato l’uomo di legge con deferenza contadina e un problema eterno di liti per terre confinanti. Poi, con orgoglio, riscattò la sua ignoranza rivendicando il suo capolavoro: Ecco qui mio figlio! Ah, Sauro Afonso mi sfogliò veloce, un’occhiata e capì tutto, il professore. Lui si vestiva di cultura, anche dentro il pigiama l’ostentava. Anche nudo non era come gli altri. In ospedale il suo ‘buongiorno’ rimetteva ognuno al posto giusto. Alla distanza giusta. Chiese e ottenne un letto nella mia stanza: Con questo bravo ragazzo che presto guarirà e tornerà ai suoi studi. Cícera se ne andò felice e tranquilla per la nuova protezione. L’avvocato avrebbe vigilato su di me. Mi salutò con un bacio e Sauro Afonso do Amaral avvocato e professore del Colégio Estadual do Bairro da Prata mise la sua mano sotto le lenzuola, tra le mie cosce. Mi accarezzò sul basso ventre. Lo fece a luci spente, appena mi addormentai dopo una puntura antidolorifica. Oh, professore, ma che fa? Niente, ti lamentavi in sonno, massaggio la tua pancia. L’infermiere ci sorprese in posa oscena. Il professore era fregato. Le distanze accorciate, in quella posa era un vizioso come tanti. No, niente affatto, dopo un breve bisbiglìo litigioso Sauro ripristinò la sua autorità. L’altro, per rispetto o per danaro, si tenne in silenzio con la direzione. Il professore fu dimesso e si portò via, intatta, anche la sua onorabilità. Mi lasciò un numero di telefono e il giorno dopo, dalla corsia dell’ospedale, già chiamavo. Sauro, il primo uomo della mia vita. Uomo maturo. Io lo spoglio dentro camere d’albergo, lui mi porta in gita in macchina. Seduti al bar di rua Maciel Pinheiro ordiniamo birra e guaranà.

 

Lui mi voleva in pantaloni, discreto. Io in minigonna, scintillante. Un conflitto delicato, il nostro. Sanato in parte dalla situazione. Il professore – lo ripeto, uomo di mille raffinatezze – viveva separato dalla moglie. Abitava nella casa materna con una madre anziana e una figlioletta di dieci anni. Fu per l’onore della famiglia altolocata che cedetti alla sua richiesta: Solo pantaloni Fernando, anche di sera.

 

La madre, donna severa e religiosa, di domenica lasciava la sua camera per andare a messa. Noi ci spogliavamo nella stanza accanto. Poi Sauro mi invitava a pranzo. Tutti insieme, la vecchia, Sauro, la figlioletta ed io: Fernando, il suo giovane amico, uno studente, il suo pupillo. Presentazioni a voce bassa, posate d’argento, sala in ombra e mobilia scura portoghese.

 

Uomo di cultura, l’ho gia detto. Lui preferiva sfilarmi i pantaloni, io tirarmi su la gonna. Un equivoco in amore. Non mantenni la promessa. A sua insaputa facevo le mie passeggiate solitarie. Non potevo farne a meno. Era una sera di quelle quando incrociai Aldir e la mia testa andò in confusione.

 

Ora so quello che fai! Una vergogna, uno schiaffo. Álvaro era stato informato. Ma non riferì né a Cícera né a Adelaide del mio fermo di polizia. Non gli ho mai chiesto perché, non ne ebbi il tempo, né il coraggio. Accadde infatti che il giorno dopo mia madre era a pranzo da noi. Ero terrorizzato da quel che avrebbe potuto dirle Álvaro. Arrivai a casa in ritardo, era domenica e con Sauro avevamo approfittato della religiosità materna. Finalmente, ti aspettavamo tutti, dove sei stato? A casa di una amica, mamma. Ma davvero! Cícera si illuminò in un gran sorriso. Adelaide le andò dietro: Dimmi Fernando, di chi ti sei innamorato? Raccontaci, chi è questa tua amica? Mi arrampicai in cima ad una bugia mentre Álvaro – occhi sempre più storti – era lì che ascoltava. Inventavo, cambiavo di cento colori quando un clacson nella strada distolse tutti dalla mia menzogna. Suonò scomposto, maleducato. Una volta, un’altra, eppoi un’altra ancora. Era Sauro, io lo sapevo. Lui suonava, io scendevo. Un colpettino, doveva essere solo un colpettino, perdio! Ma il professore era impazzito, era fuori di testa per il vino e il desiderio. Suonava, rombava su e giù per la viuzza. Mi voleva subito, immediatamente. Adelaide si affacciò alla finestra: Fernando, in strada c’è quell’uomo che stava in ospedale con te! Anche Álvaro e Cícera s’affacciarono. Tutti, sulla via s’erano affacciati. Sullo spettacolo che il professore dava di sé e del suo amore. Impazzito, il panico mi afferrò alla gola e mi picchiò forte in testa. Voci e volti andarono sottosopra. Barcollai tre passi indietro e mi schiacciai sulla parete opposta alla finestra, svenni. Cícera mi venne in soccorso, anche Adelaide lasciò il davanzale. Álvaro no, Álvaro, occhi di fuoco, incasellava al posto giusto l’ultimo pezzetto del suo mosaico. Ora era completo. Solo mia madre, appena mi ripresi, mi trascinò di nuovo dentro il suo delirio: Ah, l’avvocato! disse con tono rispettoso.

 

Era l’otto maggio millenovecentottantadue, e tutto mi precipitò addosso. Fu per la vergogna di essere scoperto, per il coraggio che non avevo. Per Álvaro che incombeva, perché ognuno mi voleva come io non ero. Perché alla mia gonna non potevo rinunciare. Per tutto questo e per tante altre cose ancora quella sera vidi solo una possibilità, la fuga. L’altra, il suicidio, allora mi pareva troppo rumorosa.

 

La stessa notte sgusciai fuori di casa. Bussai al 41 di rua Pedro Americo che era quasi mezzanotte. Sauro aprì. L’imbecille, si preoccupò per l’ora tarda e sbirciò attraverso la porta semiaperta della madre. Non si era svegliata, bene: Fernando calmati, parla sottovoce. Non posso più stare a casa Sauro, Álvaro ha capito tutto, presto lo dirà a Cícera e Adelaide. Ero ubriaco Fernando, perdonami, ti desideravo tanto. Ora però non precipitare la situazione, torna a casa, non mi rovinare, non fare il mio nome! Lo stronzo, il professore. Mi sussurrò: Se non ti travesti poi ti trovo una pensione, poi si vedrà, si aggiusterà. Gli urlai in faccia un vaffanculo che riempì la casa. Lui corse da sua madre. Io acquistai un biglietto per João Pessoa. Due ore di pullman e destino ignoto.

 

Tra un passo e l’altro c’è l’abisso. Ed era esattamente lì che io fluttuavo. Né prima, né dopo. Nella schiuma, tra lo scoglio e il mare. Non sapevo più chi ero, quello che volevo, dove andavo. Camminavo, con il bagaglio stretto in mano e la notte segnata all’orologio.

 

Un taxi accostò il marciapiede, fuori dal finestrino spuntò una faccia bianca da ventenne:

– Ehi, lo vuoi un passaggio?

– Sì, lo voglio.

Dio solo sa quanto lo desideravo. Sì, lo voglio – confermai. Entrai nell’auto senza esitazione, senza un indirizzo dove andare. Quella parola mi rimise al mondo. Lasciai le mie paure sul marciapiede, fuori. Dentro, nell’abitacolo, soltanto io e lui. Denti bianchi e odore di benzina. Le sue mani stringono il volante.

– Dove vuoi andare?

Pupille chiare, fiori alle finestre: eccoli qui i suoi occhi. Un palcoscenico. Fernanda, la mia nuova libertà, come una prima attrice occupa la scena. Cícera, Álvaro, Sauro Afonso – la fuga. Vuota il sacco, piange, racconta tutto. Anche il piacere d’esser presa, non avevo compiuto dieci anni; penetrata, in quel diavolìo sganasciato che mi faceva femmina per loro. Tredici anni e io la vacca, nella campagna, nel bosco. In mille immagini ricostruite, inventate per un José tutto mani al volante che accelera sfriziona e frena. Affollano la macchina, le immagini. Gli intrappolano la testa. Io sono lì, scisso, inoffensivo, mentre Fernanda scintilla e si racconta, puttana e studentessa. La guardo, mi guardo. Rincantucciato sul sedile viaggio la città di notte. A portata di mano, nell’abitacolo, sono l’unica via d’uscita nel traffico di desideri dentro cui l’ho preso: Ehi, José, è lei che guida, che dipinge il panorama dove sterzano i tuoi pensieri. Sì, mi piace – lei si racconta – è un guizzo caldo dentro di me. Guardatelo, è José, ora il suo corpo risponde alle mie parole come a tenere frustate. Fermo sul rosso palpita ad ogni azzardo nel peccato, segretamente stringo e dilato il mio piacere. Il culo. Fernando, sono spettatore di me stessa. Fernanda mi sorprende, inaspettata, liberata. Mossette, mossettine. Abita il mio corpo, inghiotte la mia coda, la biscia. Eccomi qui, maschioefemmina con un José-con-me e la voglia che ci riempie mentre viaggiamo un lungomare sconosciuto che allontana la città. Ora lo so, basterà un soffio e lui verrà giù, castello di carte al primo sfioramento.

– Oh, José, se potessi rinascere femmina per un uomo.

Dolcemente, lui manovra un bordo desolato, ferma la vettura. Apre gambe e braccia con uno sbadiglio che è una resa. Le carte del castello sono in aria. Confuse. Gli apro la zip dei jeans con la punta delle unghie, pacco infiocchettato. Luce di luna, una carezza sulla nuca mi comanda in basso. Tra le mie labbra la sua capitolazione – la mia sottomissione. Succhialo, succhi meglio di una donna. Lo so, “Fernandinho è meglio di una figlia femmina” – Cícera diceva. Io la sentivo, la sento, mentre intanto inghiotto.

– José lasciami qualche cruzeiro per continuare.

– Sì, comprati un biglietto per tornare a casa. La notte è fatta di neri, banditi e stronzi. Rischi la vita.

 

Cammino dentro strettoie, slarghi, lungo pareti buie di palazzi silenziosi e sconosciuti. Scivolo, mimetizzato dentro passi d’uomo, attraverso sguardi notturni, occhi guardiani che mi fermano il cuore ed il respiro. Animale da preda, animaletto senza tana né rifugio. La città sconosciuta lievita dentro di me un’inquietudine che scombina in caos, è il mondo intero che mi minaccia, che sfugge al mio controllo. Sono solo. Mi tengo stretto alla valigia, poche cose. Due vesti di Eulália, le sue mutandine, un quaderno di matematica – io, la studentessa. No, a casa non ci torno.

 

Busso con una bugia alla porta di un commissariato: Ho perso il pullman, tenetemi con voi, quando farà giorno partirò. Sono gentili, mi indicano un divano tutto macchie d’unto e puzzolente dove accucciarmi. Il tempo d’un respiro lento, di un pensiero svelto a quell’idea fissa di mia madre che mi voleva militare. Come loro. Un rumore di voci, ferri e porte spalancate mi riporta nella stanza. Entrano, strattonano una catena, legato ai polsi un gigante nero suda olio e sputa sangue – un bandito. Mi fulmina con gli occhi – veados! Una bastonata, un poliziotto lo colpisce su un orecchio che ancora impreca Dio. Era sicuro, all’alba avrei ripreso la mia fuga.

 

Davanti al tabellone della biglietteria dei pullman la voce di Izael Diaz, la carogna, tornò a ghignarmi dentro: Sì, Fernandinho, da grande andrà a Rio o San Paolo, soldi facili per lui! No, io andrò a Recife, figlio di puttana! Sì, scelsi Recife, anche perché la generosità del giovane tassista non mi consentiva altro. Non avevo soldi a sufficienza. Non era importante, io non partivo per arrivare, io fuggivo e basta. Lontano da tutti, dalla esecuzione della mia condanna: solo Fernando: pantaloni e uccello duro. Desideravo il bene di un uomo – per loro un attentato, un brivido d’orrore. Per me una colpa, uno smarrimento in un mondo che non aveva la fantasia per inventarmi senza disprezzarmi. Né maschio né femmina, allora solo veado e rottoinculo! Stronzi!

Davanti alla biglietteria tutto questo io lo sragionavo. Sono pensieri d’oggi. Intorpidito dalla brutta notte riuscivo solo a contare i chilometri che avrei messo tra me e il Sítio. Tra me e l’Uomo Nero dei miei incubi. Cinquecento mi sembrarono abbastanza, e allora fu Recife.

 

Lasciai la valigia al deposito bagagli e ripresi a camminare. Di nuovo verso il mare, fino al porto. Cammino lungo la banchina, lungo la spiaggia, in un brulichio di facce sconosciute che una pioggia calda, improvvisa, disperde velocemente in mille direzioni. Resto solo, bagnato. Costeggio l’orlo dell’oceano fino alle prime piantagioni di cocco e di banano. La città si fa lontana, dentro la notte. Il sonno mi prende in mezzo all’erba umida, col sollievo delle lacrime e la pancia gonfia del cocco che ho spaccato e ingurgitato.

All’alba mi svegliano due neri, fanno jogging lungo la spiaggia. Mi guardano come si guarda un cane morto, senza fermarsi. Le gambe non mi tengono, tremano per la fame, l’umidità. Col sole alto sono di nuovo calamitato in città. Scappo come un ossesso per marciapiedi e vicoletti. Di corsa, con la paura delle botte e la vergogna d’esser ladro. Veadinho, ho rubato la mia colazione. Sono completamente fuori di me. Bocca impastata e sabbia nella testa da due giorni. Addento la refurtiva e già penso a sera; oltre non vado, oltre non so.

 

Devo riposare, fermare quella città che mi gira troppo svelta nella testa. Varco la soglia di una chiesa per un po’ di pace, tra santi portoghesi e cristi neri. Per chiudere gli occhi, tra soffitti ricchi d’oro e croci intarsiate di smeraldi. Al sicuro, sotto l’altare cercavo un po’ di quiete. Un giovane prete, passi svelti dentro una veste nera, mi sorprese che mi ero appena raggomitolato. Ci spaventammo. Doveva chiudere il portone: Per salvare l’oro e il fresco delle mura, disse.

– Chiudimi dentro, resto solo per dormire!

– No, trova un lavoro e troverai di che dormire!

 

Il prete ragionava bene, dovevo trovare un lavoro. Di lì si ricomincia. Guardo avanti, i miei passi prendono una direzione. Busso porte d’alberghi e ristoranti. Azzardo perfino un’officina, l’unica aperta alle dieci di sera.

– Faccio qualsiasi cosa per due pasti e un letto per dormire.

– Aspetta la chiusura nel retrobottega ragazzo, ti troverò un lavoro.

Due volte il culo. Edinando senza collo, il proprietario, entrò nella saletta con la faccia raggiante di chi ha deciso di far festa. Al primo sguardo aveva già capito. Una scatola di biscotti, guaranà e due asciugamani. Feci una doccia, mangiai i biscotti e lo lasciai fare. Controvoglia, due volte il culo – la sua festa. A giorno fatto mi diede l’indirizzo di una pensione: Usa il mio nome come credenziale. Lo ringraziai.

 

– Faccio tutto: lavo la biancheria, cucino, pulisco le stanze. Faccio tutto per un letto e due pasti al giorno.

Faccia di cocco – Mariluci, annusò il buon affare, ebbe compassione. M’inquadrò con due parole.

– Ti travesti?

– Sì, ogni tanto, ma porterò rispetto, me ne andrò lontano dalla pensione.

– Va bene, puoi iniziare subito.

Doveva essere una rinascita, fu l’inferno. Alle cinque del mattino devo preparare venti colazioni. Operai che lavorano in campagna, un panino, caffè, un po’ di latte bianco. Prima però servo a letto Mariluci: Fernando, il caffè è freddo! Le due figlie femmine: Fernando, troppo caldo! I due figli maschi, lamentandosi: Fernando, è tardi, portaci il caffè! Alle otto ritiro la roba sporca dalle stanze e sono tutto pavimenti e docce. Torno in cucina che sono le undici e organizzo venti pranzi. Operai che lavorano in città, riso e fagioli. C’è un coperto anche per Edinando. Poi lui mi chiede il culo. Io glielo dò, dopo la chiusura, sempre nel retrobottega della sua officina. Finito il pranzo lavo piatti e biancheria sporca. Faccio tutto per due pasti caldi e un letto per dormire. Alla sera sono disfatto ma mi tengo ad occhi aperti: in TV c’è la mia novela preferita. Passano soltanto due settimane e sono già minacce e schiaffi, per un bicchiere rotto, per un ritardo del pranzo. È Mariluci: Sei come uno di famiglia, Fernando. Poi però mi tratta come un cane. Sembrava un buon inizio, fu l’inferno.

 

Antonio, quarant’anni, sposato con due figli. Era arrivato da Rio de Janeiro per lavoro. Mi vide e non perse tempo. Mentre facevo le pulizie mi strinse all’angolo per un appuntamento: A mezzogiorno dentro la doccia, mi disse. Si poteva fare ed io andai. Fu rapido come un coniglio, mi ritrovai un po’ di soldi in tasca. Durò quarantacinque giorni e fu un gioco a nascondino. Io lavoravo come uno schiavo, lui ubriaco mi sbirciava. Mi acchiappava svelto svelto nei posti giusti, nelle ore buone. Un rischio divertente, presi gusto al gioco. Un bell’uomo, un ricordo che è un piacere. Partì presto e sentii la mancanza sua e degli spicciolini.

 

Conosco la città, giro di notte. È buio, eppure vedo linee e confini da non oltrepassare. Bordeggio e scanso territori pericolosi. Scopro percorsi e nascondigli. So dove camminare, gonna di Eulália e mutandine di merletto. Inizio a frequentare il Batutas de São José. Il club. Molte donne ed io tra loro, discreto. Viso truccato e pantalone giusto. Parlo con loro, le donne, e gli uomini mi avvicinano: Campari, whisky o vodka? Solo per scherzo, lui mi dice: Vieni, vieni a ballare il forró, vieni a ballare con me. Oh, il mio José del club mi fa ballare come una donna, forró di musica ed io Fernanda. Una coppia tra le altre. Sì, stanotte non voglio danzar con una donna, voglio ballar con te, veadinho! Sì, stringiamoci José. Io per davvero e tu per scherzo. Abbracciami José, che mi voglio femmina per te. Per questo forró che mi prende dentro, per questo giro di danza da non tornare indietro.

 

Io l’avevo in testa il mio modello, il desiderio: Sonia Braga. Nella TV, negli occhi dei José di Brasile. Bellezza che si guarda, natiche fortunate e bocca disegnata. Seducente. Sonia Braga mi umiliava il corpo e mozzicava l’anima. Io come lei, un sogno.

 

Un giovane José, un militare dell’aeronautica mi avvicina al club. Solo due musiche, due balli, eppoi via in albergo. Una notte intera con un uomo dentro il letto. È la prima volta. Stella del settimo cielo, io brillo, dentro un bacio che mi fa femmina per lui. Era deciso, solo Fernanda. Sarà questo il mio futuro, la fantasia. Mi prese come un uomo prende una donna. Viso a viso, bocca a bocca. Fernanda, come Josefa e Aparecida: pancia tonda e fessura tra le gambe. Così io mi sentivo. L’ho amato come una donna ama un uomo. Era bellissimo e glielo dissi con cento sì per cento desideri. Ma cosa buona finisce presto e al mattino mi lasciò in malo modo.

– Era l’alcool diavolo di un veadinho, io non bacio in bocca i froci!

Ciccia che pende sotto il ventre, Fernando solo Fernando.

– No, brutto stronzo! Io ero per davvero!

 

Vuoi farti crescere i seni? Semplice, vendono gli ormoni in farmacia, Anaciclin, senza ricetta, sono pasticche anticoncezionali. Il culo? Poi ti dirò, c’è Severina a bombadeira, poche iniezioni di silicone.

È Vania, la conosco al club. Tutti i José per lei. Gambe sbarrate da un finale di calze scure. Tenute su da due giarrettiere che le spogliano l’anima prima che la minigonna oscuri il vizio. Il tabù. Uno spavento tra le gambe, sotto sotto da toccare – i viziosi. Mi prende a ben volere, ciglia finte e tanto rosso di rossetto. (Vania è intoccabile, inviolabile, sospesa su due tacchi a spillo è la perfezione. Desiderio perfetto, perfettamente realizzato. Incarnato. Forma compiuta da violare, da toccare. Soltanto di notte, solo a pagamento). Mi prende per mano, sorellina. Io il brutto anatroccolo, lei la diva. “Anaciclin, per cominciare”.

 

Anaciclin, ventotto pasticche a confezione. Non so aspettare e le bevo tutte insieme frammiste a un frullato di carote. Dentro il letto, occhi al soffitto, aspetto che ad albeggiare siano due seni di magia. Aspetto, come aspettavo l’aereo di mezzanotte. Josefa inviperiva: Ma tu sei maschio, l’aereo non ti porterà il figlioletto! Vomitai una macchia rossa, mi contorsi dal dolore. Fernando mi resisteva, si rivoltava. Durezza del suo corpo. Petto liscio e natiche quadrate. Un uomo. “Era l’alcool, veadinho, io non bacio in bocca i froci!”. Io ti piegherò, Fernando. I miei José non baceranno un maschio. Nascosi vomito e strazio dentro un silenzio sofferente. Venne l’alba e tornò sera. Corsi da Vania che già batteva il marciapiede.

– Fernanda, vieni proprio dalla campagna. Solo due, al massimo quattro pasticche al giorno, e i seni cresceranno. Piano piano, vedrai che cresceranno.

 

Nella pensione i pantaloni erano obbligati, le voci mi comandavano al maschile. Insopportabile, rimuginavo: Vania ha ragione, ma che ci sto a fare qui? Dopo due mesi non ho ancora un soldo in tasca. Pensavo, tutti dormivano, puzzavano. Ronfavano, svenuti tra le pezze, nel gira e rigira di una stanchezza operaia che gli agitava il sonno. Un dormitorio, una tristezza di futuro. No, io no. Vania ha ragione, che ci sto a fare qui? E allora detto fatto. Lo specchio mi assorbì tutta, mi risucchiò nel suo riflesso.Lentamente, iniziai col fondo tinta, finii col rimmel e il rossetto. Minigonna e tacchi a spillo mi avviai decisa per l’avenida Antonio Falcão, il lungomare di Recife. Zona bene, gente ricca, dove il culo si trasforma in buon affare. La vergogna però mi bloccò su una stradina laterale: Per iniziare va bene anche questa, pensai.

– Cosa fai qui frocio?

lei, fruga rabbiosa dentro la borsetta

– La stessa cosa che fai tu, bicha!

io, rovisto impaurita tra i rifiuti

– Vattene!

una lametta serrata tra le dita.

– No, non vado.

un vetro stretto in pugno

– Non sei femmina, sei un trans! Solo qualcosina in più di me, allora resto e batto il tuo stesso marciapiede, stronza!

 

Ma le cose non stavano così. Non era solo qualcosina più di me. Era che mi rovinavo gli occhi dentro il solco dei suoi seni. Anche lei mi condannava: un frocio: piatto al seno e senza culo. Farle concorrenza era impossibile. Se ne accorse subito e capovolse la sua furia in una gran risata.

– Ti credevo uno di quei finocchi che rapinano i clienti e rovinano la piazza, sono bastardi, sono brutti e puntano il coltello in gola ai miei José. Della concorrenza io non ho timore.

Vero, dalla concorrenza non aveva niente da temere, era bellissima. È la mia prima notte di marciapiede, le confessai. S’intenerì e mi prese sottobraccio, sorellina, fino al lungomare.

Mi lasciò dentro uno sfolgorio di fari accesi, clacson e stelle a cielo aperto. Recife. Una cometa, Vania si faceva illuminare. Era lei che illuminava, fantasia in azione, una fila di José in quattroruote. Multicolori. Pelli nere, bianche e girandola di abbagli. Azzurri, verdi, avantindietro di freni e accelerate. Giostra di luci e lampi su culi smisurati, labbra sboccacciate, tette, guaine e merletti. Frevo! Febbre carnevalesca: Fatti vedere tra le cosce Vania! Gonne per aria lei faceva il prezzo, talvolta anche per il cazzo, i viziosi. Sul lungomare la transessualità dava il suo spettacolo e mille José andavano a baciargli il culo. Entrai nel circo impaurita e affascinata.

Vania mi salutò ed io tic e tac mi portai discreta in lontananza. Dietro la ribalta, per nascondere le mie insufficienze. Avrei imparato presto, io volevo. Lo sa il diavolo quello che volevo. Arrivarono i fari di un José di cinquant’anni anche per me: Monta in macchina, mi dice. Io salgo. Prima un gamba e poi l’altra. Si fa dentro l’auto, pensai. Invece no, dentro un albergo, lui è così che vuole. Ha una faccia seria che mi intimidisce. Non è facile disbrigarsi in quel genere di mercato, non è semplice dichiarare il prezzo, la prima volta. Nella stanza mi comandò a quattro zampe. Poi si rimise i pantaloni: Quanto vuoi? Come non lo sai? Dovrai pur vivere, no? Cinquecento cruzados vanno bene? Risposi di sì. Glielo dissi con un lieve movimento della testa, tradii la mia vergogna. Quella di esser pronta a pagamento. Ma il più era fatto, ora José è cliente: io servo e lui paga.

 

Quella sera furono in quattro. Prestazioni differenti, qualche soldino. Niente male. Ma non era solo il denaro a tenermi lì alle tre del mattino. Io faccio la puttana, ecco il punto. Batto il marciapiede con altre venti trenta transessuali. Sono desiderata. Mi esibisco al femminile. Fernanda, ed è spettacolo.

 

Era la prima volta, il mio sguardo basso, intimidito. Ma dentro indemoniavo. Voglio i miei seni, voglio un culo grande da farmelo leccare da questi José che di giorno non mi sanno amare. Tra pensieri di vendetta e desideri non mi accorsi della polizia che arrivò improvvisamente. Mani e calci addosso: Via, via da qui frocio maledetto! Fui lenta, mi acchiapparono. Mi chiusero con le altre dentro uno stanzone. Uno spettacolo in disarmo. Trucchi disciolti e visi accartocciati. Odori forti e pisciatoi per cazzi in mano. Solo uomini. Tornai libera e schedata che erano le sei del mattino.

 

Mariluci mi aspettava fuori di sé. Fuori dalla porta, gettati alla rinfusa, con violenza, c’erano pezzi di me: i vestiti di Eulália, il completo per il trucco, le scarpe comprate con i soldi di Antonio, tutto il mio piccolo corredo: Frocio, vattene da questa casa. Era incattivita, ebbi un gran spavento. Mi avrebbe uccisa. Sì, se avesse saputo di me e di suo figlio lei l’avrebbe fatto, spalle da pugile. Mi avrebbe buttato dentro la buca. Dentro il fosso sotto la finestra dove il marito si era suicidato. Per me ucciso, da quel donnone, in un giorno di furia come questo, forse per un sedia lasciata fuori posto. Mariluci mi avrebbe ammazzato, spalle giganti. Suo figlio aveva insistito, toccato, ed io ceduto. Costretta, perché non volevo. C’era il patto, “niente dentro casa, niente con i miei figli”, avrei dovuto rispettarlo. Ma non andò così e ora temevo la vendetta. Tirai un sospiro di sollievo, non sospettava la mia trasgressione. Quando si calmò presi anche il coraggio per una protesta: Mi devi pagare Mariluci, ho lavorato come un diavolo, ora mi devi pagare! Forse non si aspettava la mia ribellione, forse pensò ai clienti della sera e si acquietò. Era un giorno di gran lavoro e non poteva fare a meno di me. Raccolsi le mie cose una ad una, entrai nella stanza e mi sfilai, piangendo, gonna e camicetta. Indossai gli abiti di Fernando e cominciai a preparare le colazioni. Ma la testa mi girava senza sosta, la domanda sempre la stessa: Ma che ci sto a fare qui? Con questa negriera, con tutti quei soldi che mi aspettano sul lungomare. Preparai anche il pranzo. Faccia di cocco prima o poi verrà a sapere, pensavo, mi ucciderà. Arrivò anche l’ora di cena. Scoprirà il vizio di suo figlio e allora impazzirà. Fu buio, spazzai via di stanza in stanza un po’ di soldi dei clienti, chiamai un taxi e diedi fuoco alla cucina. Carta e stracci sui fornelli. “Mariluci, eccoti servita!”. Lei non c’era, i clienti fuori casa. L’incendio bruciò alto, avvampò fuori dalla finestra. Ipnotizzata, confusa tra la folla della strada, io guardavo. Mi bruciavano dentro quelle fiamme, di vendetta. Poi il bagliore dell’esplosione della bombola del gas deviò i miei pensieri. Niente di grave, nessun morto. Arrivò il taxi e nella confusione l’autista afferrò solo il mio comando: A Natal! Rio Grande do Norte, lui obbedì. Era il venti giugno del millenovecentottantadue.

 

Trecento chilometri, una fuga di cinque ore. Già sapevo che in città si lavorava il marciapiede. Solo cinque o sei mesi di ormoni e la notte avrei battuto il lungomare, puttana e qualche lineamento femminile. Fernanda, finalmente senza umiliazione. Come Vania. Ero eccitata, spaventata. Stanca per la notte passata e per quella da passare. Mi abbordò un taxi – ricorrenza –, questa volta un vecchio nero sbiancato, un cinquantenne che ne mostrava cento.

– Sali veadinho che ti dò un passaggio.

– No, non voglio.

– Non puoi stare qui, se ti prendono i banditi ti uccidono!

Ebbi paura, accettai. Mi raccontò di una casa di puttane e di una paga giusta per un lavoro che non era il marciapiede. In cambio volle il culo e glielo diedi. Di fianco, sul sedile della macchina, per evitare al naso il fetore del suo cazzo puzzolente. Il porco. Alle due di notte mantenne la promessa. Mi presentò a Damião, il gestore del bordello. Nove puttane, una schifezza di casa. Giusto il tempo necessario per far crescere i miei seni, poi me ne andrò, pensai.

 

– Un frocio!? Damião, ma che ci fai con un finocchio nella Casa?

– Riceverà i clienti. Di giorno farà le pulizie, di notte servirà bibite e liquori. Cucinerà e farà di conto per le percentuali. La paga sarà giusta. Dormirà nella mia stanza o nel vostro letto.

Solo a vederle, le puttane, mi restituirono la differenza: sempre e solo veado: ancora senza seni e ciccia tra le gambe. Ebbi un’accoglienza fatta di cento scherzi per vedermi nuda. Volevano toccarmi il pene, glielo nascondevo. Dormimmo in quattro dentro un grande letto. Giovanissime, le tre puttane ed io. Ci furono parole tra di loro, storie di una notte. Di vizi stravaganti e amanti avvelenati. Ma nel grande letto la festa era tutta per me. Ebbero un gran ridere per il pudore che mi aveva fatto mettere faccia al muro e schiena verso loro. Non mi toccate, dissi, non le voglio le carezze delle donne. Rosa mi giaceva accanto, la sua voce s’intenerì: Va bene Fernandinha, ti rispetterò. Però togli la faccia dal muro, guardami, dimmi se ti piaccio. Risate d’acqua chiara, fiori in un letamaio. Una sopra l’altra, le cavalle nitrivano per le mie mutandine di merletto. Che bel pisello Fernandinha! Se vieni con me ti presento un cliente assai vizioso. Soldi soldi soldi! Con lo scherzo mi portarono tra loro, arrivò anche il rispetto.

 

Damião, il padrone della casa, era una vecchia maricas encubada, un frocio non dichiarato. Non voleva si sapesse. Quando il suo amante non c’era voleva che dormissi nella sua stanza: Dì alle puttane che ti scopo, non mi va che quelle malelingue sparlino in giro del mio vizio. Ingenuo! Tutte sapevano, tutte gli ridevano dietro, le vipere. Di nascosto, perché Damião non perdonava niente. Quando c’era lui erano tutte rispettose, perché quell’uomo era sì duro ma anche giusto. Preciso nel far di conto e preciso nel pagamento delle percentuali. Damião non rubava alle puttane, offriva un luogo sicuro dove lavorare. Più qualche servizio in camera con il sottoscritto. Per Rosa il bordello era una casa da abitare. Una strana famiglia cui appartenere, dove c’ero anch’io: Fernandinha, l’ultima arrivata.

 

Gilda era lesbica, gli uomini non le bastavano. Voleva me, voleva fare l’amore con me. Me lo dissero le puttane: Si è innamorata di te, Fernandinha. La maledetta allungava le mani, mi toccava tra le gambe. In principio, nella confusione dello scherzo generale, non compresi il suo desiderio. Poi tutto venne a galla. Accadde quando un amico di Damião chiese di stare un po’ con me: Un’oretta e ti farò un bel regalo. Dissi di sì. Di tanto in tanto anch’io avevo i miei clienti. Un servizio della casa, solo per alcuni. Discretamente, senza disturbare il lavoro delle donne. Dissi sì col consenso di Damião ed entrammo in camera. Era dietro di me che mi scopava sul bordo del letto. La specchiera di un vecchio armadio stile coloniale mi restituiva la sua faccia smilza e agonizzante. Avrei voluto buttare all’aria quell’espressione troppo seria con una risata fragorosa. Ero su di giri, ma non osavo. Silenzioso, il suo piacere cigolava triste e regolare come la morte. Repentinamente, però, nel bel mezzo della faccenda mi mollò di scatto e si gettò come un diavolo sulla pistola che aveva riposta sul comodino. Muto come un piranha esplose due colpi secchi verso la finestra. Qualcuno ci spiava. Tutta la casa corse in allarme alla nostra porta. Lui uscì vestito e triste, così com’era entrato. Ebbe solo un cenno per Damião che a sua volta liquidò il fatto con una battuta: Un guardone, disse. Le puttane però sapevano e mi riferirono. Era Gilda che mi spiava. Me lo confermò lei stessa quando mi dichiarò il suo amore: Tu sei lesbico come me, Fernando, mettiti con me. Mi si appiccicò mani e bocca addosso ed io persi il controllo. Mi liberai di lei con uno spintone, ruppi una bottiglia e provai ad arrivarle al collo. Damião mi bloccò con mano ferma. Mi avrebbe cacciato via, Damião non perdonava niente, ma le puttane intervennero in mio favore: È lei che lo perseguita da due settimane. Il padrone mise tutte in silenzio e impose una pacifica convivenza. Durò poco, la maledetta non si era rassegnata.

 

Tuca Rubirosa, presentatrice alla TV, seno giusto e un sedere sproporzionato. Per i brasiliani un trans è perfetto quando ha il culo grande: O belo rabo, o bum-bum. E Tuca aveva le misure giuste. Aveva tutto questo e in più era ricca, miracolata dal piccolo video. Era un trans tra i più famosi del Brasile, forse uno dei primi. Ora vive a Ginevra, si dice, operata e felice. Alla casa delle puttane era lei a tenermi incollata alla TV. Intanto continuavo a prendere anaciclin, quattro pasticche al giorno, come mi aveva consigliato Vania. Tuca Rubirosa aveva viaggiato Parigi e modellato natiche e seni col silicone. Corpo di donna e viso come Sonia Braga. Modella delle mie modelle. Dalla TV illuminava la mia via.

 

Gli ormoni iniziarono a produrre i primi effetti. Due accenni, due piccoli seni, il mio sollievo. Giorno dopo giorno i due capezzoli germogliavano. Due grandi aureole pigmentate gli si allargarono intorno a sostenere la fioritura. Cime sensibili ad ogni mia carezza, alla cotonina della camicetta. Crescevano. Per la meraviglia di Rosa, cuorgiocoso di puttana; per me, che consumavo specchi e sogni. Fernanda prendeva consistenza. Anche fuori di me, i clienti me la restituivano, me ne accorgevo da cento piccoli dettagli. Le puttane aiutarono il miracolo. In cinque mesi mi migliorarono nel trucco e nell’acconciatura dei capelli. Imparai a spogliarmi e a rivestirmi di cento malizie per catturare i José al desiderio. Una sera Rosa mi disse: Ehi, Fernandinha, Heronaldo da quando ci sei tu si fa vedere molto spesso. Sì, l’avevo notato anch’io e già ero innamorata.

 

Heronaldo. Lui diciott’anni, io diciannove. Lavorava in un bar della stazione, frequentava la casa per curiosità. Anche la vecchia maricas di Damião aveva notato il movimento: Fernandinho, dimmi, è un tuo innamorato o un cliente? L’ho conosciuto alla stazione, viene per le donne, gli risposi. Ma Heronaldo non veniva per le puttane, pensavo senza dire. Lui viene solo per me che già deliro di gelosia per l’interessamento del padrone e per le donne che l’assillano. Un giorno, felicità, chiese di me. Voleva stare in camera con me. Ed ecco qui il disastro. Gilda si fece avanti che io non c’ero: Vattene Heronaldo, lascia stare Fernando, è mio cugino, di te non sa che farsene. Rosa sentì tutto: Heronaldo aspetta, non le dare retta, vado a chiamare Fernanda, lei ti dirà. Gilda impazzì di gelosia e mi raggiunse, lametta in mano, che stavo sotto la doccia: Tu sei solo per me Fernando, ti amo, ti voglio tutto per me! A me piacciono gli uomini e non le donne, non mi toccare! Lasciami in pace brutta lesbica! Come una pazza, nuda, scaricai una pioggia di colpi sulla sua faccia idiota e maledetta, su quella indiavolata. Le tirai fuori il sangue con un vecchio rubinetto, forza furiosa che non si fermava. L’avrei uccisa. Rosa e le altre me l’impedirono, finirono loro, a calci e sputi, di menarla. Scesi sconvolta da Heronaldo, invocai un appuntamento: Alle cinque alla stazione. Lui disse sì, io arrivai puntuale. Damião non mi avrebbe perdonato una seconda volta, lo sapevo: Heronaldo, devo andar via da lì, affittami un piccolo appartamento, ti pagherò, lavorerò il marciapiede. Ma lui s’intestardì in un’alternativa: Se sai cucinare per davvero ti troverò lavoro in una famiglia. Accettai, più per lui che per il lavoro.

 

Mi trasferii a Ponta Negra. Presso una famiglia che mi offriva una camera con bagno, telefono e televisore. Una villa sul mare, gente ricca, chiave elettronica per entrare. Il dott. Nilo e la signora Mercedes mi accolsero senza pregiudizi e con una buona paga. Sapevano chi ero. Heronaldo era stato chiaro e loro comprensivi. Le tre figlie praticamente non le vidi mai, perse nei labirinti della casa studiavano per l’università. Ero in paradiso e la casa delle puttane, vista da lì, ora mi appariva avvolta tra le fiamme dell’inferno. Alle cinque e trenta lavoravo in cucina, alle venti avevo finito la giornata. Rinunciai a fare marchette, c’era solo Heronaldo. Lo vedevo di sera, mi vestivo da donna: baci sulla bocca e mani sui miei seni. Una delizia. Ma la luce del giorno ci divideva ed io soffrivo. Dovevo accontentarmi, quello era il patto: Verrò soltanto di sera. Era fidanzato con una giovane donna. Niente di grave, pensai, glielo porterò via. Me lo prenderò tutto, lo conquisterò come una donna conquista un uomo. I miei seni cresceranno. I miei fianchi saranno perfetti, come quelli di Rubirosa. Heronaldo, il suo bene sarà solo mio. Sicuro. Ma di giorno lui non c’era e la gelosia mi gonfiava dentro. All’inizio sfogava con improvvise tristezze, poi divenne rabbia e fu sfrenata. “Non riuscirò mai ad essere donna giorno e notte”. 8 Straripavo, oppressa dentro certezze che mi straziavano l’anima: fa l’amore con un’altra, parla con un altra, si bacia con un’altra. Chiusa dentro la villa schizzavo da un tormento all’altro. Era mio e andai a riprendermelo anche di giorno. Al lavoro, da sua madre, da Damião, per sapere se era lì che mi tradiva: No Fernando, Heronaldo qui non s’è più visto. Rosa mi era amica ma non le credetti, era una puttana. In pochi giorni la mia febbre, la gelosia, divorò tutto il paradiso intorno. Inghiottì il mio sorriso e mi risputò all’inferno. Tutto il mondo divenne mio nemico. Per tre giorni e tre notti, sconvolta, girai strade e spiagge alla ricerca di Heronaldo. Nessuna traccia, era sparito. Si negava. Furono notti insonni, il mio cervello liquefatto. Mi tradisce, mi ha lasciata! Albeggiava appena e mi bruciai gola, viscere e polmoni con una mistura di veleno per topi, varecchina e olio diesel. Vomitai schiuma bianca e sangue pesto, dal naso e dalla bocca. Un nonsochì mi portò d’urgenza all’ospedale. Mi svegliai dopo due giorni, con i tubi nella gola e dentro le narici. Fernanda teneva il palcoscenico, ma lui non ritornò. Era il dicembre del millenovecentottantadue.

 

Dimessa dall’ospedale, recitavo la mia fine buttata su una panchina alla fermata dei pullman. Sola, male in arnese, con la gente che mi scansava come un’appestata. Ma nella vita si fanno incontri per il Bene e incontri per il Male. E quel giorno il Bene arrivò con la faccia di Carlos. Diciotto anni, mulatto e veado: Hai un posto dove andare? No, non ce l’ho. Allora vieni con me, mamma Tetés non dirà nulla. Tetés, Teresa. Una faccia crepata dalla miseria, nera. Mani segnate da cento rughe, come la casa dove dormiva. Una favela. Per i suoi figli aveva mescolato il sangue, mischiato semi e colori. Santi cristiani e Orixás africani. Tetés mi accolse senza fare domande, ma io ero cresciuta dentro un’altra storia, una nostalgia cabocla.

 

“Negro, quando não caga na entrada, caga na saída”. Negro, quando non caga all’entrata, caga all’uscita. Cícera non ammetteva repliche. Ed io avevo succhiato il latte dal suo seno. L’avevo succhiata tutta quella piccola lista del Bene e del Male, dei Buoni e dei Cattivi. Ma Tetés disse di sì alla mia presenza, che stavo lì pancia bruciata e pelle mora tra mulatti e neri. Mi curarono per un mese e a febbraio, quando mi fui completamente ripresa, li lasciai alla loro miseria.

 

Scrissi una lettera a Cícera: Sono scappato perché non sono un uomo. Non mi piacciono le donne, sono nato per amare i maschi. Tu non vuoi capire. Anche Álvaro, tutti a Remigio mi guardano con gli occhi storti. Non ho avuto il coraggio di dichiararmi davanti a te. Quando la mia vergogna finirà ritornerò.

Arrivò la sua risposta: Non posso stare sola, sei mio figlio, vengo a prenderti a Natal.

 

Cícera veniva, io scappavo. Il giorno dopo, sul pullman per Salvador guadagnavo distanza a sud del Sítio. Mille chilometri potevano bastare. Guardavo indietro e scappavo. Di nuovo, nuovamente. Avanti non vedevo, non sapevo. Avanti lo sa solo Dio.

 

Salvador risucchiò l’ultimo pensiero per mia madre dentro una bolla calda di spazzatura, incenso e olio fritto di dendê: Alla churrascaria Roda Viva, al Pelourinho! Il tassista nero mise in moto senza degnarmi di uno sguardo. Lo pagai, ed entrai a chiedere di Risomar. Era lui che movimentava il ristorante. Sangue arabo mischiato a portoghese. Una famiglia di ristoratori. L’indicazione fu l’ultimo regalo di Tetés. Ebbi una buona accoglienza, un lavoro in cucina e un posto per dormire. Ricominciai a guardarmi intorno. Nello specchio, i miei seni che crescevano. Sempre anaciclin, quattro pasticche al giorno.

 

Fernando o Fernandinha? Quello che vuoi tu, Risomar. Allora sa-rai la principessa della mia cucina. Princesa, eccomi qui, fu Risomar a battezzarmi. Per un filetto alla parmigiana che gli conquistò il palato e mi portò nelle sue grazie. Ma anche sulla bocca di cuochi e camerieri neri. Princesa, anche per qualche cliente che dopo la chiusura veniva già a pagarmi il culo. Discretamente, senza lavorare il marciapiede, perché “battere a Bahia è come andare in guerra”, le puttane mi avevano messo sull’avviso. Ed ora, dentro quella bolla scura, tentennavo. Risomar mi voleva bene e nel ristorante mi sentivo protetta da una città disordinata come la mia testa. Mischiata. Impaurita, dentro un brulichio nero e scolorato che sotto grattacieli e chiese coloniali intrecciava Nosso Senhor do Bonfim e Orixá, Cocacola e Mãe-de-santo. Risomar era buono ma la tentazione irresistibile: Princesa, uno spettacolo. Pirotecnica. Deciso: di giorno cuciniere, di notte gran puttana. Dopo qualche settimana mi sentii pronta e scesi per rua Chile a rischiare il marciapiede. Una festa.

 

Avenida Otavio Mangabeira, lungomare. Eccole qui che arrivano, facce di diavolo, facce di scimmia: Frocio, ora ti spacchiamo il culo, le bestie. Dai José, tienigli le gambe, tenetelo, tenetelo fermo stronzi, dai, ficcaglielo su per il culo, bagnalo di merda quel bastone. Facce di diavolo, facce di cane: Faglielo uscire dalla bocca, fagliela passare la voglia a questa bicha maledetta. I maiali. Neri, erano cinque poliziotti neri: Apri la bocca frocio, aprigli la bocca José, mangia questa sigaretta finocchio, bruciati la lingua leccacazzi. Le carogne, facce di jene. Botte, sangue: Sparagli, sparagli un colpo in testa a questa spazzatura, stronzo spara! Dio mio noo, aiutami Signore. Pisciagli addosso a questa schifezza d’uomo, andiamo andiamo, mollalo, via via andiamo via! Madre santissima non mi abbandonare, dammi la forza per arrivare a casa, voglio ancora vivere.

Neri, eccolo qui il mio odio.

 

Edson, un nero. Fu il terzo uomo della mia vita. Ventisette anni, una moglie, due figli, troppo pigro per lavorare. Suo nipote faticava nella cucina del Roda Viva: Princesa, zio Edson vuole conoscerti, ti aspetta dopo la chiusura. Ero ancora convalescente, forse mi aggrappai a lui per amore, forse per paura.

Dopo la violenza rinunciai al marciapiede per qualche settimana. Mi prescrissero una cura di antibiotici. Mi restava soltanto il ristorante: puzzo di fritto, sudore e veste da cuciniere. Lo ripeto ancora, il lavoro era buono, ben pagato. Ma io volevo, li rivolevo addosso quegli sguardi. Tutti quei José per me. Fu così che ricominciai: Solo per due o tre ore a notte, mi ripromettevo. Ma poi rimanevo sulla strada fino all’alba – forbice lunga dentro la borsetta. Per gli stronzi e i ragazzini.

 

Edson guardava senza batter ciglio, io facevo e disfacevo: cuciniere e gran puttana. Amore per lui, marchette per i clienti. Tette che fiorivano, barba che raspava. Tutto e il contrario di tutto – la guerra e la festa. Ogni cosa sembrava tenersi insieme dentro quella bolla calda, Bahia de Todos os Santos, nella mia testa. Eppoi c’era il portafogli, coi miei José in pronta cassa Edson mi sorrideva. Soldi facili e lui legato a me. In pochi mesi aprii un piccolo conto in banca, affittai una camera al Pelourinho, acquistai una Fiat voyage. Non per me che non avevo la patente, per lui, che lo volevo al fianco come una donna un uomo.

 

“Il tuo Edson è una maricas, Princesa”, “Spende i tuoi soldi coi finocchi”, “Vuole essere inculato!”. Un frocio. Mi tradiva col peggiore dei tradimenti: darsi come una femmina con un gay, il mio uomo. Un maricão, pensai a una confidenza avvelenata: tra i transessuali c’è sempre invidia e gelosia. Però qualcosa c’era, fare l’amore con lui era un dispiacere. A letto ero io che insistevo: Facciamo o non facciamo? Era un uomo freddo che non sapeva quello che voleva. Una tristezza. Io col desiderio di esser penetrata, lui con mille scuse. Stava con me soltanto per i soldi, mi sfruttava.

 

Soltanto per i soldi, è solo per lavoro che lo lascio fare. Un José mi viene mani e bocca tra le gambe per addrizzarmi il cazzo. Io sono lì, minigonna sollevata ai fianchi e seni all’aria che non mi si addrizza. Paga doppio, è solo per lavoro che lo lascio fare. Sotto di me, lui vuole che lo monti, ma il mio pisello è mezzomoscio. Mi invoca al femminile: Dentro Principessa, mettimelo dentro! Io non ce la faccio, troppi ormoni. Le amiche mi avevano messo sull’avviso: Tieniti nel giusto Fernanda, quanto basta per i seni, quanto basta per fartelo tirare ancora, altrimenti perdi un pezzo di mercato. Sono clienti di città, ormai lo sai, in molti sono viziosi. Anaciclin, quattro pasticche al giorno forse erano troppe. Ma erano seni e fianchi quello che volevo, di farmelo rizzare non mi importava niente. Anzi, l’avrei buttata nel cesso quella ciccia moscia. Eppure devo accontentarlo questo vizioso. Devo fare tanti soldi con questi mariti di città, padri perduti, figli cattivi di metropoli scassate. Vuole che i miei seni ballino mentre l’infilo, lo stronzo. Dice che paga doppio, che paga triplo e spinge di natiche e piagnucola che lo vuole dentro. Fatico e soffro mentre glielo appoggio e lui si inarca. Il rizza culo. Scappo, vado a nascondermi nella mia fantasia. Una dissolvenza, la sua voce che scompare. Mi allontano, mi ritrovo dentro i riflessi di una immagine increspata al tremolio di un’acqua mossa. Io e Paulo, nell’acqua cheta. Profumo di bosco e terra bagnata d’alluvione. Avevo otto anni, mi lamentavo eppure lo volevo. È la mia voce quella che sento. Sono mie queste fossette che accarezzo su una schiena sconosciuta che intanto infilzo, sudo e sbatto forte contro. Sto sotto di me, dentro di me. José è solo trasparenza d’acqua chiara. Non lo sento più, non lo vedo più. Lui non esiste più. Sono io che inghiotto la mia coda, che sto con me. Tutta dentro di me, solo per me. Improvvisamente, due fari accesi a centoallora stridono e sgommano per una curva presa stretta. Rubano la scena al buio e vanno oltre, in un muro muro che sfreccia un cimitero di finestre spente. Mi strappa al ricordo, quell’abbaglio. E rieccolo qui questo stronzo che mi sta ancora sotto. Ansima, chino sul cofano di un automobile. Sbircia da didietro che una principessa su due tacchi a spillo spinge e se l’incula nel parcheggio. Lui gode, io no. Io non vengo, quello non è il mio piacere, è solo cacca sul pisello. Io sto da un’altra parte. Io sto alla fine, io conto i soldi e basta.

 

Rossana se ne stava a far clienti in solitario. I suoi seni erano un’invidia. Due desideri. Strappati, tagliati, mutilati. Anche il pene, mozzato, reciso, evirato. Di lei rimaneva soltanto quell’orribile mucchietto, un rituale. Il corpo era irriconoscibile. Carbonizzato, di benzina e testa indemoniata. Bastardi.

 

Lo vidi coi miei occhi. Edson stava con un frocio sulla spiaggia. Prendevano il sole, i carini. Gli stronzi. Avevo dato il cuore e i soldi ad un finocchio. Lo aspettai a casa, lui arrivò che mi faceva schifo. Ubriaca di whisky litigai d’urla e unghie in faccia. Ruppi la bottiglia per sfregiarlo ma mi mancò il coraggio. Affondai il vetro nel mio braccio. Una cicatrice per sempre. Un taglio nella carne per una persona che poteva anche vedermi spaccata in due in mezzo a una strada e non avrebbe fatto nulla per salvarmi. Edson scappò, giurai che non mi sarei più innamorata. Volevo essere amata, ma il finale era sempre lo stesso.

Arriva un José di cinquant’anni: Fatti vedere Princesa! Vuole lo spettacolo. Devo, Salvador non è Natal, c’è tanta concorrenza anche se non è ancora Rio o Milano. E allora si deve, mi piace. Abbasso la minigonna a fil di natica: Scegli me José, mostro merletti, faccio parole che gli gonfiano il pisello. Mi risponde: Sali in macchina, andiamo al motel. Arriviamo e lui si spoglia, posa una pistola – il serpente. Ha anche un pugnale nascosto dentro le mutande. Lo vedo e scappo, il vecchio bavoso. Salto dalla finestra e sono nuda nel cortile. Figlio di puttana! Grido aiuto a squarciagola. Arrivano due poliziotti, corre anche il direttore del motel: Non urlare stronzo, spaventi i clienti, vestiti e lascia stare. Pagò tutti, anche i poliziotti: E tu sta zitto frocio, se no è peggio per te. Eccoli qui, le facce di diavolo, sapevano e coprivano.

 

Chi molto si evita, ci sta sempre addosso. Mi nascondevo, cambiavo casa, ma Edson mi ritrovava. Arrivava fumato, minaccioso. Fatto di maconha e con un compare sempre appresso. Gli davo un po’ di soldi ma non bastava. Con lui c’era sempre un amico nuovo, ed io lì a fargli gratis il servizietto, gallina dalle uova d’oro. Col mio sfruttamento manteneva vizi, moglie e figli. I miei guadagni evaporavano come acqua al sole. La polizia bussò alla mia porta per una multa salatissima. Quel maledetto aveva investito un vecchio, io pagavo. Cercai lo scandalo con il nipote, con la moglie. Poi chiesi a Risomar di tenermi a dormire al ristorante. Disse di sì, ma niente doveva rimanere come prima e tutto cambiò.

 

“Princesa, tieniti nascosta. Non farti vedere in cucina dai clienti. Nascondi quelle tette, vestiti decente: c’è gente che pranza. C’è l’aids, froci e transessuali mettono paura.”

 

Valquira aveva vent’anni, una felicità. Era l’alba, Praia da Amaralina. Tutte noi intorno e lei che se ne andava. Un collo di bottiglia rotto infilato dentro l’ano. Cocacola grande. Ci fu anche una perizia: violentata coi bastoni, emorragia interna.

Un mal di testa, ora basta un mal di pancia e intorno a me s’alza una fortezza d’occhi storti. L’aids, la Maledetta, prende il gesso e segna i suoi confini – io fuori, loro dentro. Anche al ristorante. Lei tocca tutto, è presente dappertutto: un colpo di tosse in cucina e lei appare con cento sussurri alle mie spalle. Princesa non è più principessa al Roda Viva, è frutto avvelenato.

Sul marciapiede la Maledetta arriva coi bastoni della polizia – facce di diavoli, e perquisizioni dentro la borsetta: Frocio, facci vedere i preservativi! Niente, allora bastonate.

 

Chiesa di Santa Teresa, Rogéria e un suo cliente. Due spari nella testa. I corpi abbandonati sul sagrato della chiesa. È la mattanza.

 

Risomar fu definitivo: Deciditi Princesa, o lavori senza fare la puttana, o fai la puttana e lasci il lavoro. Scelgo di fare la puttana. Sì, anche perché dopo una piccola flessione dovuta al Virus il mercato riprende incandescente. Indemoniato, c’è qualcosa di più, qualcosa di diverso, spaventoso. Io non capisco, porto i preservativi sempre appresso. Io faccio un altro viaggio, verso altre mete.

 

Anaciclin, sempre quattro pasticche al giorno. Fernando si consuma lentamente. Il pene rimpicciolisce, i testicoli si ritirano. I peli diradano, i fianchi si allargano. Fernanda cresce. Pezzo dopo pezzo, gesto su gesto, io dal cielo scendo in terra, un diavolo – uno specchio. Il mio viaggio.

 

Iara era la più bella del Brasile, dopo Roberta Close. Trent’anni, tutte le scuole di samba la volevano per la sfilata. Playboy e Fatos & Fotos la celebravano nuda e in patinato. Mulatta chiara, alta come una tedesca. Il suo corpo era perfetto, plastica e silicone. Viaggi a Parigi e tre appartamenti a Rio. Iara faceva anche un po’ di prostituzione, ogni tanto, per vizio, non certo per bisogno.

Avevo appena fatto due clienti – sempre preservativi dentro la borsetta. Passeggiavo per un ultimo José e l’incontrai. Fu lei a mettermi la pulce nell’orecchio, a consigliarmi una nuova destinazione: Rio è la città giusta, qui ti stai perdendo.

 

Arrivano sballati, scippano, violentano – senza preservativo. Fumano maconha, sono neri, disoccupati, maconheros, appunto. Due volte mi acchiappano, rapinano e bastonano. Sono loro che fanno la città di notte. C’è paura, c’è difesa. Si batte il marciapiede in gruppi di cinque o sei. Coltelli, forbici e combattimenti. Fughe, tacchi scollati e cicatrici.

 

Il settembre del millenovecentottantacinque scappo a Rio. Per le lusinghe di Iara, per la paura dei neri.

 

Sui marciapiedi della grande metropoli, Severina a bombadeira espone i suoi capolavori. Corpi bombati, levigati, siringati al silicone. Sfarfallio mai visto di numeri e fantasie. Mille modelli al desiderio mi confondono d’incanto, di paura. Io, poca cosa – cosetta. Io vedo e scelgo: È Perla il mio modello. Definitivo. Perla, se mi guardate adesso, dopo l’applicazione del silicone, la rivedete. Vedreste le sue gambe lunghe che come sabbia al mare vanno lente al cielo.

 

Diana fofão ha perso la faccia, ha perso tutto. La nasconde al sole e alla vista dei clienti. I suoi occhi: due biglie lucide affondate, sparite dentro una devastazione al silicone. La sua bocca: un taglio rossoschifo su un pallone gommapiuma. Diana fofão s’era bombata il viso e non le restava niente. Deformata, repellente. Un errore. I José ora la sgassano lontano. Lei aspetta quelli vecchi e ubriachi offrendosi di schiena. Ma il silicone l’ha tradita. La sua faccia è franata, sformata. Plastica al calore. Lui abbassa il finestrino, lei entra tutta spalle e natiche in esposizione. Lui si accorge e urla di spavento: Vattene, mostro ammosciacazzi! Lei gli pianta una forbice alla gola: Stronzo, paga lo stesso. La materia è entrata dentro l’occhio. Diana fofão è guasta, forma andata a male. Se toglie il silicone è cieca: non vedrà più il mondo che la guarda. Senza operazione le rimane solo un mondo che la schifa. È merce andata a male. Lava i cessi e fa le pulizie dentro una pensione. Faccia senza luce, entrò in una chiesa e si tirò una corda al collo – fiore di plastica appassito.

 

Severina a bombadeira mi tranquillizzò: No, per il viso niente silicone liquido, è troppo rischioso. Ebbi un’esitazione: Ho paura, Severina. Come paura? Se vuoi diventare donna prima c’è il dolore, solo poi sarai Fernanda. Mi convinse, per una settimana mi prostituii con mille astuzie per racimolare i soldi necessari. Strappai cento José alle bombate per realizzare il desiderio: Princesa come Perla. Sì, una copia, perché a Rio tutto è possibile. A Rio si sogna, ed è già fatto.

 

Novembre millenovecentottantacinque, Severina, nella sua casa, mi bomba i fianchi con iniezioni di silicone liquido. Senza anestesia.

 

Dicembre millenovecentottantacinque, il prof. Vinicius, nella sua clinica mi applica le protesi di silicone ai seni. Con anestesia.

 

Una felicità addomesticata da infinita attesa. Come se nello specchio, per ventidue anni, non avessi visto altro che quelle linee, quelle forme. Due mezze noci di cocco furono i miei primi seni, le prime rotondità che addolcirono il mio corpicino. Cícera mi scoprì e furono botte. Sono passati quindici anni ed ora, finalmente, eccomi qui che indosso fianchi esagerati, ampi e lenti come le anse del San Francisco. Mi danno passi al femminile, quelle curve. Mi stringono dolcemente in vita per arrivare senza fretta ai seni: due mele di stagione profumate. Un tocco finale, manca solo un tocco per finire. Sarà un amore certo che mi deciderà. Intanto così sto bene. Mi sentivo bene davanti a Dio e davanti agli uomini. Nella testa e nello specchio: Fernanda e transessuale.

 

Luce di giorno, mi spoglio e sdraio sulla sabbia. Vado in spiaggia. Nel formicaio sono una tra le altre. Mi confondo nella folla. Sono tuttapposto e passo liscia, presente e invisibile nella distrazione della gente: una donna. Fernanda ora mi ritorna sempre più forte, restituita da mille attenzioni prima sconosciute: un uomo che mi cede il passo, la gentilezza di un anziano, l’occhieggiare di un ragazzo. Soltanto dopo le applicazioni seppi veramente cosa volesse dire essere donna in mezzo a mille sconosciuti. Cambiò tutto, persino i suoni della mia lingua vibrarono diversi. Cambiai anch’io. Fui letteralmente trascinata in un mondo altro: quello delle donne.

 

Una donna con il pene, lo so. Ma quello che loro non vedono è ciò che non si deve. E io li aiuto. Li rassicuro nascondendolo con abilità ed esperienza sotto la minigonna. Compresso negli slippini elastici. Rimpicciolito dagli ormoni. Schiacciato, che solo chi lo cerca lo ritrova. (Lo so, forse non è così. In molti sanno, capiscono. Vedono, eppure si comportano come se io fossi tutta donna. E quel come se per me è già tanto. Forse tutto. Nell’imbarazzo di un disagio i più s’appoggiano all’apparenza del convenzionale: seni culo tuttoapposto, allora signorina. Nella spiaggia come al ristorante. E per me è un’altra vita).

 

Mi sentii davvero bella quando qualche notte dopo l’applicazione un cliente abituale si presentò con un fratello minore al primo svezzamento. Accadde in rua Augusto Severo. Il minore scelse me: È lei che voglio! Io dissi no, col ragazzino rischiavo la galera. Ma il più grande si mise a garanzia e andai con loro. Arrivammo in un parcheggio semibuio e nell’abitacolo mi misi in posa per accontentare il piccolino. Lui mi prese con una botta d’animale. E il prepuzio, staccandosi, lo fece urlare dal dolore, il barbaro. Mi lasciò il preservativo dentro il sedere e mi imbrattò di sangue senza smettere di urlare. Il fratello accorse minaccioso ed io faticai a spiegargli che il profilattico sì che c’era, anche se al momento lui non lo vedeva. Fimosi, suggerii quasi professionale: Eppoi, José, c’è che il tuo fratellino è un gran goloso, ecco perché s’è fatto male! Mi obbligarono a seguirli all’ospedale dove per fortuna il medico confermò la mia versione. Una decina di giorni dopo ritornarono e il minore ebbe soddisfazione. Capita spesso, ai transessuali, di celebrare simili iniziazioni.

 

Severina a bombadeira e il dottor Vinicius ebbero con me mani fortunate e per qualche giorno pensai che la mia fuga fosse finita. Mi illusi d’essere arrivata. Duemilacinquecento chilometri, mi ero allontanata abbastanza per tornare. Da Cícera, donna e dichiarata: io, sua figlia, una normalità. Non sarei più arrossita di vergogna. Battevo e sognavo un ritorno in pompa magna. Avrei smesso di vendermi come si vende carne al macello. Avrei vissuto come una donna con un uomo, oppure artista in qualche club. Ancora qualche anno di prostituzione e avrei potuto aprire un piccolo bar, una boutique, oppure un ristorante, prima piccolo eppoi grande. Insomma, dopo Severina il mio futuro si era agghindato a festa. Povera fessa!

 

Diana faceva bocchini a rottadicollo. Forse è brutale ma i fatti stanno, stavano, proprio così. Era il suo lavoro, niente di male, la sua specialità. Il problema era che lei li faceva ai poliziotti. Anche qui niente di male. Tutti i trans cedono alle minacce della polizia. Per tenersela buona, per evitare una notte in gattabuia e un bel po’ di bastonate. Diana però strafaceva. Lei era la Regina della polizia carioca, una protetta. Loro arrivavano in pattuglia, legnavano a destra e a manca e lei giù a succhiare su tutto quello che poteva. Quasi una passione, la sua. A me la cosa non piaceva affatto ma non me ne facevo un cruccio, erano affari suoi. Una volta ci beccarono sull’Avenida Atlantica che battevamo in concorrenza. Con noi c’erano altri cinquanta transessuali. Il carrettone arrivò con molte macchine di sostegno e fu il putiferio. Un parapiglia. Accadeva spesso, per un vizioso che andava a denunciare una rapina. Per la droga che girava. Per la Maledetta, oppure, più semplicemente, per noi, ch’eravamo un attentato mortale alla pubblica decenza. Comunque, quella sera mi resi conto che per Diana sarebbe finita male. Lei quel trattamento non l’accettava. Sul furgone non ci voleva salire: Ma come, solo ieri notte ero lì, tutta Regina a farvi il piacerino ed ora come ricompensa mi trattate a spinte e calci. Erano parole in generale e in quel casino passarono leggere come acqua di rose insieme a qualche sputo in faccia. Quello che invece non andò giù al sottufficiale fu ben altro. Quell’infelice, infatti, non tenne a freno la sua lingua e cominciò a chiamarli tutti, fece l’appello. Uno per uno, per nome e per cognome. Tutti suoi clienti, tutti poliziotti. Fu a quel punto che la cosa si fece veramente seria, sul posto furono in molti a perdere la faccia. Facce nere, facce di diavoli. Diana si dimostrò un’incorreggibile. Una pasionaria della verità al costi-quel-che-costi. Non la passerà liscia, pensai sul carrettone. Fa sempre così, mi alitò una bicha affianco. Senza vederla la sentivamo che strillava indiavolata. La trascinarono via e per me era già morta. Ma la sera dopo, miracolosamente, era di nuovo che batteva l’Avenida Atlantica di Copacabana. La faccia livida di botte. Ci scambiammo anche un saluto, era nordestina anche lei, di Fortaleza – stato del Ceará, per precisione. Poi ci dedicammo ognuna al suo lavoro. Erano le tre di notte quando una pattuglia l’invitò a salire. E lei accettò tutta consenziente. La vidi coi miei occhi, ancora piena di passione e smancerie. Tre giorni dopo la trovarono sulla spiaggia di Botafogo. Senza seni e senza pene. Tagli di coltello e cinque pallottole in bocca.

 

La bastonata arrivò dal basso all’alto e schizzò via tre punti di sutura al seno destro. Mi beccarono ch’ero sola, lontano dal gruppo per via di un cliente che mi aveva scaricato in periferia. Inchiodarono la macchina e uscirono sbattendo le portiere. Di nuovo loro, a Rio peggio che a Bahia: facce di diavoli, facce di scimmia. Mi costrinsero in un angolo e d’istinto tirai fuori dalla borsetta venti centimetri di forbici taglienti. Attentai al primo volto che mi arrivò a portata. Una faccia di cane, un poliziotto. Nero. Il sangue non era ancora uscito a colorargli il muso che mi ero già pentita per tutto quel coraggio. Quando ogni via di fuga è chiusa di solito io non lotto, mi rassegno. Sono già finta morta o sottomessa. Metto in scena l’opera come se il diavolo l’avesse già compiuta, con la speranza che nell’altro arrivi un cedimento, un ripensamento. Una deviazione dalla linea retta della sua intenzione. Ma quella sera gli avrei appuntato il cuore all’animale. E fu per questo che spaventai me stessa: per quell’audacia loro m’avrebbero finita. La bastonata arrivò cattiva al seno che ero già piegata in due da un colpo dritto preso nella pancia. Caddi di piatto sul marciapiede con al seguito una scarica di “frocio maledetto”, legnate e calci addosso. Non mi accorsi nemmeno quando fu finita. Se ne andarono come erano arrivati. Dentro un battere veloce di portiere e una sgommata sull’asfalto. Era un venerdì di notte del dicembre millenovecentottantacinque e il seno sanguinava forte.

 

Dovetti aspettare il lunedì per sentire il dott. Vinicius constatare che la ferita, nel frattempo, si era infettata. Asportò la protesi e il mio petto divenne un sorriso senza denti. Guardarmi nello specchio divenne una fatica, quella cicatrice contorceva i miei pensieri. Ad attenuare la depressione arrivarono i conforti della chirurgia: Solo sei mesi e tornerai tutta a posto. Con una operazione fresca e un seno nuovo. Se trovavo i soldi per pagare.

 

Lorena fu la mia salvezza. Una bicha, un vecchio transessuale. Una persona sincera e amica come lei non l’ho più incontrata. Fu nel suo appartamentino che trovai rifugio e assistenza. Pochi soldi, tanta solidarietà.

 

Ma fu Severina che mi rialzò il morale. Mi riportò a galla con una seconda applicazione di silicone ai fianchi: Pagherai quando sarai guarita, Princesa. Ripresi fiato. Due belle natiche appaiate al fondo schiena mi consolarono dello sparigliamento al seno. Io lo sapevo, quel solco morbido che le unisce e le divide attira i miei José più dei due rigonfiamenti al petto. Sono le natiche la vera tentazione! Così antica che perfino il diavolo – che non ce le ha – s’infiamma dall’invidia. Insomma, mi consolavo. Severina ebbe per me anche parole d’incoraggiamento: Ma sì che puoi tornare sul marciapiede. Sei bella, chi vuoi che noti il tuo piccolo difetto al seno.

 

João Paulo lo notò, ma disse che non era niente: Vedrai, presto ritornerà a sorridere. João Paulo studiava per diventare ingegnere. Mi avvicinò lungo rua Augusto Severo. Un mese dopo non sarà più un cliente, ma il mio amante. Un ragazzone dal sesso divertente, un maschio fantasioso. Niente a che vedere con Edson, il frocio. Una domenica mi invitò a pranzo e mi fece una proposta: Affittiamo insieme un appartamento, divideremo le spese. Dissi di sì, ma non avevo soldi a sufficienza: Andrò a battere a San Paolo per una settimana, poi prenderemo insieme casa. Mi decisi per San Paolo perché lì si lavorava meglio, così raccontavano le mie colleghe. Lui protestò per quell’allontanamento, ci fu una gran litigata. Come tra marito e moglie, la cosa non mi dispiacque affatto. Caricai di lacrime e cattiveria la scenetta, poi la risolsi con un lieto fine. João Paulo accettò l’idea della mia partenza.

 

Uno sconosciuto avvicinò Tetê che usciva dall’albergo Ouro Preto, in rua da Lapa. Aveva appena finito una marchetta. Andò sul sicuro: era lei che lama alla gola lo aveva rapinato. Una catena d’oro e un portafoglio micragnoso. L’avvicinò a sangue caldo, urlando e smaneggiando come un ossesso. Le sparò un colpo al cuore e un altro nella schiena. Tetê morì all’istante.

Morì innocente. Perché a fare la rapina non era stata lei ma una sua co-pia. Una stronza uguale uguale, bombata dalla stessa mano: stesso mo- dello. Tetê morì per un errore, per uno scambio di persona. Lo sconosciuto le sparò mentre entravo all’Ouro Preto con un cliente appena rimorchiato. Rinunciai alla marchetta e tornai a casa per sentirmi male.

 

Partii per San Paolo con un programma preconfezionato. Albergo e marciapiede per una settimana. Non vidi altro, non feci altro, andò tutto bene. João Paulo mi aveva convinto, e la lontananza aveva aumentato l’innamoramento. Mi voleva donna giorno e notte, e a me bastava. Non era uno spiantato come Edson. Possedeva una bella macchina e aveva un impiego alla Petrobras, l’impresa brasiliana del petrolio. Insomma, dopo la parentesi paulista stavo correndo da lui quando inciampai in Jaqueline, un trans molto discreto e senza gelosie. Si scusò con me per una scopata fatta con João Paulo. O meglio, lui aveva pagato e lei fatto la marchetta: Tutto qui, Princesa, un cliente come un altro. Non sapevo fosse il tuo uomo. Ma quel che si fa si sa’, e allora meglio dirtelo subito: Lui va con tutte!

 

Lui aveva fatto, io saputo. Davvero un bel ritorno, davvero un buon inizio. Non me la presi con Jaqueline. Se l’avesse fatto apposta le avrei tagliato il viso. Me la presi con João Paulo che insisteva nel negare tutto. Non lo mandai affanculo subito perché era troppo educato. Il bugiardo. Aveva stragiurato: Con gli altri trans ho chiuso, finito. Mi aveva fatto perdere la faccia, lo stronzo. Tutte, su rua Augusto Severo, avrebbero riso alle mie spalle: Princesa gli dà il cuore gratis, noi il culo a pagamento! L’avrei sbranato e fui moglie in lite col marito. Poi gli dissi di togliersi di torno e di lasciarmi in pace. Invece divenne un’ossessione.

 

Brenda, la bella Brenda. Un’artista. Tutta plastica e silicone, una bellezza molto femminile. Battevamo insieme rua Augusto Severo dal lunedì al giovedì. Poi mi lasciava per fare il suo spettacolo al Papagaio, disco club di Rio. Saliva sul palcoscenico, tutte le luci erano per lei. Tutte, in rua Agusto Severo, l’invidiavamo. Imitava Tina Turner, Diana Ross e altre cantanti americane. Il disc-jockey metteva su la musica, Brenda la riempiva di gesti provocanti. Il figlio di un giudice, un minorenne, le rifilò due coltellate al collo. Per gelosia, disse al processo. L’aveva sorpresa col suo migliore amico. Due mesi dopo il ragazzino, l’assassino, girava libero per rua Augusto Severo. Nessuno protestò, le altre continuarono a mungergli la mammella.

Scendevano al Galeão, l’aeroporto di Rio. Arrivavano a grappoli, tutte espulse dall’Europa. Sul marciapiede ci davano le informazioni: In Spagna, Francia e Italia si lavora molto bene. Sei mesi di marchette e puoi comprarti un appartamento a Rio. Sì, a Parigi c’è da pagare un pedaggio per il marciapiede. Ci sono le veterane che sfruttano e dispongono. Ma i soldi sono tanti e ti rimane molto. Gli uomini sono più viziosi dei brasiliani ma pagano bene. Gli italiani più di tutti. La polizia? Non ti uccide per la strada.

 

Non era poco, a Rio ci ammazzavano come se fossimo galline. Tre o quattro alla settimana. Le notizie rimbalzavano in un battibaleno da un marciapiede all’altro, all’alba le ritrovavo dentro un trafiletto di giornale.

Le donne no. Venivano risparmiate da banditi e polizia. Avevano abbandonato le strade, facevano marchette nelle case.

 

Ma non erano solo spari e coltellate.

 

– Renata di Brasilia. Apprende di aver contratto l’aids, si uccide con un’overdose di eroina.

 

– Jane di Niteroi. Viene espulsa dalla Francia. Il suo denaro, una piccola fortuna, è sequestrato dalla polizia francese. Torna a Rio senza un soldo e ricomincia a battere. Si buca di cocaina e beve alcoolici come una pazza. Acceca l’occhio di un poliziotto con una forbiciata. Vive sbandata, braccata dalla polizia carioca. L’aids la colpisce. Muore di cirrosi epatica in ospedale.

 

– Alcione, cornacchia incattivita. Nel millenovecentottantacinque si scopre sieropositiva. Tenta il suicidio gettandosi dal settimo piano. I fili dell’elettricità attenuano la botta. Si rompe gambe e braccia ma salva la vita. Un miracolo, scrivono i giornali. Esce dall’ospedale e riprende a fare marchette. Senza preservativo: Come l’ho preso lo restituisco, racconta in giro. Rapina un cliente padre di tre figli. Lo punge con una siringa insanguinata al collo. Dopo tre mesi l’uomo risulta sieropositivo. Torna in rua Indianópolis e le spara quattro colpi in faccia.

 

– Suzi, detta Suzi Freire. È il transessuale più vecchio di San Paolo. Sessant’anni. Non fa più marchette. Lavora come cuoca in una casa abitata da altri dieci transessuali. Beve e fuma maconha ventiquattr’ore al giorno. Muore di aids in ospedale. Valmor, la proprietaria della casa, la cura affettuosamente fino alla fine. Organizza e paga anche il funerale. Una solidarietà rara per un transessuale.

 

– Geraldina di Recife. Cinquantadue anni. Gestisce una casa abitata da venti transessuali. Anticipa i soldi dei biglietti aerei per l’Europa. È molto amica della polizia paulista. Si buca di eroina. È sieropositiva. Rade a zero i capelli di due trans cariocas perché le insidiano il ragazzino. Scende all’aeroporto di Rio arrivando da Milano e viene colta da malore. Muore ventiquattr’ore dopo in ospedale. Dicono uno sbalzo di pressione. Dicono eroina. Dicono che l’aids l’ha fulminata.

 

– Acasia. Nata a Manaus, cuore d’Amazzonia. Una bella india, alta un metro e ottanta. Sfugge alla schiavitù dei garimpos. Nell’86 viene in Italia. Dopo quattro mesi torna ricca. Acquista un appartamento di ventimila dollari a San Paolo e una bella macchina. Colleziona parrucche. Continua il suo vaevieni con l’Italia. Fa l’amore senza preservativi e sniffa cocaina. Muore di aids in ospedale. Nel testamento lascia tutto al suo convivente italiano.

 

– Simone, meglio conosciuta come Laranjinha. È bianca, bella e forte. È sieropositiva. Va in spiaggia tutti i giorni. Batte con me rua Augusto Severo. La concorrenza non le mette paura. È cordiale con tutti. Viene ricoverata in ospedale. Cinque giorni dopo muore. Non ha famiglia. Il suo corpo se lo prende l’università di Rio.

A me pareva matto. Non mi mollava. João Paulo, rifiutato come amante si ripresentava come cliente. Prima implorava, poi mi co- stringeva: Pago, allora fammi la marchetta! Ogni notte faceva lo spettacolino. Io ci andavo a letto, poi gli strappavo i soldi in faccia. Il traditore, piangeva. Si dannava come un pazzo, mi voleva fidanzata. Pensai davvero che il cervello gli fosse andato in pappa. Sopra di me stragiurava che era amore. Sotto di lui ero annoiata, disturbata dalla sua insistenza. La situazione peggiorò di giorno in giorno. I soldi, però, dopo i teatrini iniziali l’intascavo. Ma poi restava lì a piantarmi delle storie. Non mi faceva lavorare. Abbandonai rua Augusto Severo per un altro marciapiede. Ma non cambiò niente. Mi stava appiccicato addosso come un cane con la cagna in estro.

 

Quando finalmente il dott. Vinicius rimise mano al mio seno Rio era per me una città da abbandonare. Il ventidue maggio millenovecentottantasei, il giorno del mio compleanno, mi decisi e partii per San Paolo. Città educata, civilizzata. Così pensavo, così speravo. L’imbecille.

 

“Pulisci San Paolo, uccidi un transessuale a notte”. Eccola qui la metropoli industriale del Brasile. Stampata sui muri, in guerra contro la peste gay e transessuale – contro il Virus e la prostituzione. Arrivò in massa un venerdì di notte, sbucò dal fondo dell’avenida Floriano Peixoto. Una nuvola di pubblica decenza. Turbolenta. Un corteo d’occhi di vetro, abbaglianti. Fari che mangiano la luna, zanne bianche. Moto, macchine e gente a piedi. A passo d’uomo, lentamente. Le mogli coi mariti, i figli con i padri. Agitano bastoni, stringono pietre e catene. Ripuliscono la città. Sono una nuvola che avanza al centro della strada, lungo i marciapiedi. Io già m’ero fatta furba, guardinga. Battevo il viale nascosta dietro un albero, sulla curva. Mi bastava un colpo d’occhio per avere in panoramica la via e mettermi in allarme. Karina no. Lei era assorbita anima e corpo dal suo spettacolo, dalla concorrenza. Per questo io li vedo e lei no. Accelerano, e sono dieci, venti centauri in motocicletta. Si staccano da quella massa minacciosa e Karina resta avvolta. L’infelice è preda, è presa – è persa. Mozzicata dai bastoni, dalle catene. Tormentata dalle pietre – le mogliettine coi mariti, i figlioletti con i padri. Bianchi, belle famigliole bianche. Rua Peixoto per una notte è ripulita, Karina ammazzata. Azzannata. Io mi salvai per un pelo, per le scarpe prese in mano e una fuga fortunata.

 

Di San Paolo già conoscevo la mappa, tutti i marciapiedi. Quel che non conoscevo era il freddo, i vestiti per scaldare. Io li sceglievo per fare la puttana, oppure per essere signora. Pudibonda o spudorata. I miei abiti non erano per protezione. Mi attrezzai con un impermeabile che mi copriva tutta. Quasi nuda, mi nascondevo sotto il soprabito per raggiungere e lasciare il posto di lavoro. Sul marciapiede, invece, mi battevo nuda come una femmina di giaguaro. Avevo natiche sensazionali e seni e body e tuttoapposto. Che il mio José paulista ci cascava dentro tutto intero. Io non battevo, gli vendevo un sogno. Gli sballavo dentro gli occhi, tra le gambe, appena lui mi avvicinava. Ma a San Paolo la notte era fredda e per essere giaguaro iniziai a bere forte. Whisky e vodka. Mi intorpidivo nel cervello, nei pensieri. Ero sola e precipitavo.

 

Dopo due mesi presi in affitto un appartamentino. Oliria, la padrona di casa, mi chiese soltanto puntualità nel pagamento. Non mi discriminò. Nacque un’amicizia. Si appassionò ai miei racconti amorosi e ai miei progetti. Tra donne parlavamo d’uomini. Mi rispettava perché di giorno ero discreta, gonne lunghe e passo da signora. In casa non portavo mai clienti. Passavo silenziosa e lei apprezzava. Perché di solito il trans è casinista. Dove c’è lui c’è sempre comunella: un puttanaio: furti e droga, rapine e ammazzamenti.

 

Margô: pelle d’agnello e spirito di lupo. Una mulatta alta un metro e ottanta. Il suo spettacolo era il tradimento. La sua forza quella di un pugile in allenamento. Ben vestita e provocante. Ma anche prepotente e incarognita. Saliva in macchina e lama alla gola rapinava il suo cliente. Lo lasciava inebetito con due schiaffi in faccia e la chiave dell’accensione spezzata nel cruscotto. Era lei che decideva come doveva essere fatta la marchetta. E il José doveva essere obbediente, altrimenti botte e coltellate. Margô era malvagia e perversa. Si batteva come un lupo, con gli uomini e con la polizia. Sul marciapiede esponeva i suoi trofei: pistole e serramanici sequestrati ai suoi nemici. Una guerra, tante piccole battaglie personali. Era questa la sua prostituzione. Se le prendeva il ghiribizzo all’infelice che le capitava sotto gli faceva anche il culo. Non prendeva ormoni e la sua forza era bestiale. Si capisce che per il poverino l’umiliazione era cocente. Andare a fottere ed essere fottuto: uno sfregio mortificante. Margô era la rovina del mercato. Avenida Indianópolis si liberò di lei con quattro spari calibro trentotto. Più quarantott’ore di atroci sofferenze.

 

Non è che io fossi una santa. M’ero fatta furba, guardinga, l’ho già detto. Anche il mercato di San Paolo s’era fatto difficile, indemoniato. La Maledetta se non ti rodeva dentro (io mi sentivo incontaminata), era da fuori che ti additava con bastoni e revolverate addosso. Di soldi ne giravano di meno. Allora anch’io, talvolta, per arrotondare la nottata sfilavo qualche portafogli. Solo ai clienti ubriachi, o fatti di maconha. Solo se erano così cotti che non m’avrebbero più riconosciuta. Ma Margô esagerava. Io non critico chi prende i soldi a chi ce l’ha. Ma lei li rovinava quegli infelici. Li castigava nell’onore. Per colpa di quelle come lei Tetê e altre innocenti hanno pagato con la vita. Anch’io, per poco, non la persi per una che era la mia copia.

 

Battevo l’avenida Indianópolis e un signore assai educato mi chiese il prezzo. Duecento cruzados per l’amore – solo col preservativo. Andiamo al motel, suggerii. No, facciamo in macchina, mi rispose. Mi portò in un parcheggio che non era il solito. Parlava bene, si vedeva che era un professore: Ti è caduto il rossetto, mi disse, cercandolo con lo sguardo in basso. D’istinto mi piegai anch’io a cercare con il palmo della mano. Fu così che mi puntò la rivoltella su un orecchio: Stronza, ora facciamo i conti! No, ti sbagli, non sono stata io! Tira fuori i soldi e la catena d’oro! Prenditi tutto, ma non sono stata io. Ti prego José guardami – diavolo! – guardami bene in faccia, non sono stata io! T’ammazzo lo stesso checca maledetta! Dovevi sparargli a quelle due infelici, io non c’entro niente! T’ammazzo lo stesso rottoinculo. Strappò i miei capelli, ma non vennero via. Voleva la certezza, si ritrovò col dubbio. I miei capelli non erano finti come i loro. Volle vedere la carta d’identità, si convinse che non ero stata io. Si consolò tirandomi due pugni in faccia.

 

Io sapevo chi erano quelle che l’avevano derubato. Facevano marchette in coppia, le due stronze. Erano esperte in servizietti un po’ speciali. Conoscevo anche il loro indirizzo, ma non dissi niente.

Dopo una settimana le due erano sparite. Sparate e torturate. Abbandonate come spazzatura alla discarica.

 

Duemilacinquecento chilometri mi separavano da Cícera, Álvaro e Adelaide. Un sospiro lungo, una malinconia. Ricominciai a sognare il gran ritorno: Fernanda, femmina e fortunata. Nel corpo mi sentivo bene, rinata. Ma la fortuna era lontana: in Europa, ormai era chiaro. La via più lunga era la più breve. Per costruire il mio piccolo tesoro, per ritornare a casa.

 

Oliria mi consigliava per il bene: Devi trovarti un uomo, Fernanda. Lascia stare il marciapiede. Scrivi a tua madre, si starà consumando nel dolore. Presi carta e penna e scrissi a casa. Prima però mi recai da un fotografo per tre pose castigate. Sono viva, bella e transessuale, questa era l’immagine che desideravo farle arrivare. Le misi in busta, ma prima di imbucare ebbi un dubbio, la paura di esagerare. Come avrebbe reagito Cícera all’impatto? Non era maschio il figlio che aveva partorito? Fu così che deviai la lettera su un indirizzo obliquo. Spedii tutto ad Adelaide, la sorellina avrebbe capito. Le sue parole mi avrebbero aiutata a preparare l’incontro con mia madre. Con lei, che in pubblico mi voleva militare.

 

Immobile, il motore ancora acceso. Spense le luci della moto e ci rimase sopra. Un passamontagna gli copriva il volto. Due cerchi per vedere, uno per respirare. Un guerriero. Lo controllavo a distanza, da dietro l’albero che mi riparava dai malintenzionati. Una macchina accostò il marciapiede alla mia altezza. Un cliente, lentamente. La moto sgassò e gli andò dietro. Diede ancora gas e gli lampeggiò sullo specchietto. Tuonò di clacson e quello in macchina si spaventò da matti. Sgattaiolò via senza sentire il prezzo. La moto s’infilò nella sua scia e mi sfiorò che ero ancora tutta stupita. Completò il giro dell’isolato e si fermò di nuovo sul punto di partenza. Immobile, il motore sempre acceso. Per cinque volte spaventò i miei clienti. Alla terza gli urlai dietro: Mi lasci lavorare, demonio!? La paura m’impedì di avvicinarlo. Presi una pietra, ma rinunciai all’intento. La moto, nella garoa, fumava gas di scappamento. Lui a cavallo mi fissava. Lo provocai dondolando le natiche con passo da bahiana. Sollevai la gonna a mostrargli bene in faccia il culo: Guarda stronzo, puoi anche ararlo il solco, se hai aratro a sufficienza! Si allontanò, con una coda lunga di parolacce appresso.

 

Passarono tre giorni e ritornò a piantarmi il faro addosso. Presi coraggio e risalii la luce per insultarlo faccia a faccia. Ma lui, l’anguilla, sgusciò lontano. Poi ritornò vicino. Sullo stesso punto. Le colleghe vennero a chiedermi se lo conoscevo. Se quello era il mio protettore. Dissi no e gli andammo tutte incontro. Lui zigzagò di nuovo e scansò una forbiciata che l’avrebbe offeso malamente. Anche quella notte mi impedì di lavorare. Tornai a casa irritata, impaurita. Oliria, donna di buon senso, avanzò l’ipotesi che João Paulo era ritornato. Non l’ho detto. João Paulo il matto, l’insistente, dopo l’abbandono mi aveva inseguita anche a San Paolo. Il tormentone durò una settimana. Ma San Paolo, per mia fortuna, fu più grande della sua pazzia. Mi nascose bene e lui mollò la presa. Quando affittai l’appartamento raccontai a Oliria anche questa storia. E lei, la saggia, ora quadrava il cerchio con la sua interpretazione. Le risposi che l’uomo sulla moto non poteva essere João Paulo. Lui era grosso, questo piccolino. Allora prendigli la targa e vai alla polizia, tagliò corto la demente. Buonanotte Oliria! E se poi è un poliziotto? E se è un bandito eppoi l’arrestano? Allora sì che sono bell’e fritta.

 

Masaru Takeda, la faccia era piatta, la razza giapponese. Era lui l’uomo del mistero. Lo riconobbi subito quando mi chiese la marchetta. Lo insultai per mandarlo via: Vattene vizioso, mi hai fatto perdere venti clienti! Una rivoltella in faccia mi abbassò la temperatura. Anzi, quando mi ordinò di salire sulla moto ero già praticamente morta. Si impennò con una accelerata e io mi aggrappai schiacciata seni e pancia alla sua schiena. Ad ogni scatto al rettilineo lo stringevo. Più aderivo, più sentivo che era esattamente quello ciò che lui desiderava: sentirsi stretto da dietro. Era questa la sua fantasia. Tutta qui, inoffensiva. Il mio guerriero sfrecciava sotto i grattacieli, io gli stavo appiccicata addosso. Un finocchio, pensai inizialmente, ma mi smentì coi fatti.

 

Sopra di me fu leggero come una farfalla. Il suo amore un solo batter d’ali. Troppo piccolo l’aratro, forse troppo coltivato il campo. Ma poi – meraviglia – si dilungò accarezzandomi la schiena. Baci bacetti, tanti bacini. Potrei giurarci sopra, era la sua prima volta con un transessuale.

 

Lo dicono in molti, provate l’amore transessuale, non riuscirete più a farne a meno. Diventa una passione. Masaru divenne un cliente affezionato. Veniva quasi ogni sera, solo da me, che me lo stringevo braccia e cosce sulla moto in corsa. Nell’intimità iniziò a trattarmi come se fossi la sua donna. Ogni volta un regaluccio, un profumo, una camicetta. Fantasticava un’amante, ed io saltai dentro la sua allucinazione. C’era però quella pistola in faccia, e il ricordo mi lasciava ancora sospettosa. Frugai nel suo portafogli, trovai la mia sorpresa. Masaru era sposato. Moglie giapponese e figlia appena nata. Per farsi perdonare le bugie mi raccontò di un matrimonio naufragato, tenuto ancora a galla soltanto dalla sua bimbetta. Vero, lo posso affermare, era tutto vero.

 

Con un uomo sposato! E pure orientale! Quelli vivono tra loro, Fernanda, non può durare. Era Oliria, fin dall’inizio si oppose al mio rapporto giapponese. Immediatamente, non appena le accennai la mia intenzione: puntare dritta ad una convivenza con il piccolino. Certo, se avessi avuto un’altra possibilità, un altro uomo, sicuramente l’avrei scartato. Non sentivo vero amore per Masaru. Non perché fosse di un’altra razza. Più semplicemente, lui non era quello che cercavo. Ma ero sola, e da sola non so stare.

 

Masaru aveva ventitré anni. Era socio di una ditta che gestiva un ristorante ed era impiegato, come operatore informatico, nella Telesp, la Compagnia dei Telefoni di San Paolo. La domenica mattina suonava il clacson sotto le mie finestre. Oliria ed io ci sporgevamo sulla via. Lei gli faceva gli occhi storti: Con quell’uomo non hai futuro, Fernanda. Io, invece, sempre più dolci: Lui mi porta a spasso, Oliria. Faccia allinsù Masaru ci incorniciava dentro due mandorle sorridenti. Solo un cenno ed io scendevo. Salivo in moto e me lo abbracciavo stretto per il solito giochino. Ogni volta mi invitava in posti nuovi. Pranzi al ristorante, visite con foto al giardino zoologico. Mi portò perfino nella fazenda di famiglia. Lo sciagurato mi presentò alla signora Mitsuko, sua madre: Ti presento una mia amica, le disse. Non pronunciai una parola. Non seppi mai se la vecchia vide donna o transessuale.

 

Masaru non pagava più le mie marchette, così volevo. Per me solo regali, per lui niente preservativo. Tutte per noi c’erano due sere intere alla settimana.

Era il febbraio del millenovecentottantasette e da qualche mese si era formato il nuovo governo Jânio Quadros. Il suo programma era semplice e lineare: farla finita con la criminalità e la prostituzione. La mattanza di transessuali e meninos de rua s’infiammò. Squadroni della morte, gruppi di perbenisti e polizia. Si scatenarono tutti, con tanto di protezione governativa. I muri si affollarono di manifesti: “Uccidi un transessuale a notte, ripulisci San Paolo”. I marciapiedi divennero campi di battaglia. A trattenermi dal partire per l’Europa c’era solo Masaru.

 

Io non so cosa mi rendesse gelosa di quell’uomo. Masaru non mi piaceva affatto. Senza peli e piccolissimo il pisello. Ma la felicità che non mi dava a letto me la restituiva con le sue premure, con mille tenerissime attenzioni. Credo fosse per questo che più passava il tempo più desideravo tenermelo vicino. Tutto per me. Solo per me. Tutto mio. Come spiegare questa confusione? Non mi piaceva e lo volevo. Niente, la gelosia è il mio tormento. Di punto in bianco iniziai a sospettare tradimenti e a controllarlo con due telefonate al giorno. L’insicurezza aveva sotterrato i suoi semetti. Nella mia testa germogliarono rigogliosi: una foresta, ed io lì dentro.

 

Con Oliria discutevo giorno e notte: Chissà quali bugie racconterà alla moglie, dissi simulando distacco e noncuranza. Ma la grana della voce tradì il difetto, la mia gelosia. Oliria se ne accorse e si tuffò a volo d’angelo dentro quel nondetto. Sguazzò nell’acqua, movimentò le onde. La sua lingua divenne coda di balena. Anche la mia fu presa nella rete e cominciò a sbattere così forte che fu subito tempesta. Ci ritrovammo sulla stessa barca, io e Oliria, a criticare il doppiogiochista, il senza peli, il traditore. Furono onde alte, pettegole e maligne per tutta la conversazione. Beccheggiavamo nella stessa direzione. Lei per convincermi a lasciarlo stare. Io perché sfuggiva al mio possesso.

 

– Oliria dice che mi lascerai, Masaru.

– Oliria dice che non pensi al mio futuro.

– Oliria dice che tornerai da tua moglie.

– Oliria dice che con te perdo soldi e tempo inutilmente.

 

– Oliria dice un cazzo! Fernanda, basta, non parlarmi più di quella ficcanaso!

 

Iniziammo a litigare, e non finimmo più.

 

– Devi smettere di fare la puttana, è troppo pericoloso Fernanda.

– E tu lascia tua moglie, vieni a vivere con me! Voglio un futuro!

– Non posso, c’è mia figlia.

– Allora non mi ami!

 

– Voglio andare a Rio per il carnevale!

– No, tu vai lì a sfilare nuda e ubriaca come una puttana.

– Non sono tua moglie, faccio quello che mi pare!

 

A decidere una tregua fu la polizia paulista. Una pattuglia mi sorprese con il culo nudo che davo al meglio il mio spettacolo. Oltraggio al pudore e foglio di via. Mi trattennero tre giorni in guardina, le facce di scimmia. Uno di loro provò a radermi i capelli a zero. Qualcuno lo dissuase. Masaru in quell’occasione fu davvero carino. Mi mandò un avvocato e scongiurò l’espulsione con una finta assunzione nel suo ristorante. Venni liberata e seguirono giorni di pace. Poi la mia testa ricominciò a rollare.

 

– Hai fatto l’amore con tua moglie! Lo sento!

– Mi tradisci con qualche bicha maledetta, vizioso!

 

La progressione fu micidiale e toccò rapida la vetta.

 

– Tu fai le marchette senza preservativo! Non mi fido più, Fernanda!

– Se mi lasci faccio uno scandalo con la tua famiglia!

– Basta, tra noi è finita.

 

Corsi in bagno per tagliarmi i polsi. Lui mi anticipò con un cazzotto in faccia. Andò in ospedale per sapere se era sieropositivo. Risultò negativo.

 

La fine vera arrivò qualche tempo dopo. Quando la moglie, frugando nella borsa del marito, trovò due foto. Due scatti fatti al giardino zoologico con su scritte due dediche firmate. Come Princesa una, come Fernanda l’altra. La situazione precipitò catastroficamente quando rigirando ancora nella borsa tirò fuori la fotocopia del mio documento (quello utile per l’assunzione). Sotto la fototessera, in bella vista, c’era il nome col ritratto: Fernando Farias, maschio e carnagione mora.

Era il dicembre del millenovecentottantasette e Masaru mi spedì definitivamente affanculo.

 

Oliria, soddisfatta, provò a varare il suo commento con un te-lo- avevo-detto. L’affondai subito sbattendole la porta in faccia.

 

Cambiai casa, affittai un appartamento in periferia. Salii anche al quattordicesimo piano del nuovo palazzo. Mi vidi schiacciata sull’asfalto, rinviai il gran finale. Iniziai a bere forte, divenni quasi pazza. Tutti i giapponesi somigliavano a Masaru, l’inseguivo, li chiamavo. Di notte il mio spettacolo si infiammò sguaiato, scomposto. Persi la corona, non ero più la principessa. Scesi in guerra con tutti i baciaculo che mi avvicinavano. Sfilavo portafogli, il mio alito puzzava d’alcool. Se avessi continuato per quella via mi avrebbero sicuramente uccisa, con una rivoltella oppure di coltello.

 

Erano in quattro. Tre mulatti e un nero. Banditi. Mi trascinarono, pistola alla tempia, dentro una macchina scassata. Mi portarono fuori città e si fermarono sull’autostrada: Parla, dove nascondi la coca! Furono botte ad ogni risposta negativa: Io non sniffo, bevo e basta! Non mi credettero e mi legarono mani e piedi: Parla o t’ammazziamo! No, vi porto a casa mia, ci sono i soldi dell’affitto, con quelli la coca la comprate. Il capo, il nero, diede l’ordine e li guidai fin sotto casa. Due rimasero di guardia in macchina. Gli altri due mi scortarono nell’appartamento. Si presero i soldi, e si presero anche il culo. Uno dopo l’altro, senza nessuna protezione. Non se ne accorsero nemmeno, ma si scoparono una morta. Il nero, prima di andarsene, mi appoggiò una lama sul pisello: Bellezza, se vuoi ti faccio subito l’operazione! Mi lasciarono dentro una risata che era un vomito d’inferno.

 

Sull’aereo per Lisbona sognavo rose e fiori. Il calcolo era semplice e già fatto: sei mesi di marchette in Spagna, oppure solo quattro in Italia; così mi sarei sistemata. Organizzai la partenza in pochi giorni. Acquistai il biglietto senza chiedere soldi in giro, per rimanere indipendente. Partii da sola, fare matassa con le altre non era necessario: nei racconti delle espulse c’era tutto quello che dovevo sapere. In Europa la polizia non t’ammazza per la strada. Una cuccagna.

 

Il buio fuori dall’oblò assorbì sguardo e pensieri. Nel vuoto, la mia mente si popolò di ansie e figure familiari: Cícera, Adelaide e Álvaro, mio cognato. La lettera con le tre foto castigate che avevo spedito a Adelaide era arrivata dritta a destinazione, mia sorella aveva rispettato la consegna. Non so come, ma aveva preparato Cícera alla visione di quelle fotografie. Prima di partire avevo telefonato per sapere l’effetto provocato. Adelaide un po’ piangeva un po’ se la rideva: Sapessi, Fernando, nostra madre è rimasta sbalordita, non ci crede, non vuol credere che sei tu quella della foto. S’è impuntata come un asino, dice che lei non è ancora rimbambita, che lei t’ha fatto bello e maschio. Ti piange morto, aspetta il tuo ritorno: un miracolo. Chiesi di Aldenor e lei rispose: No, non è ritornato. Dicono tutti che vaga ancora nella caatinga inseguendo una visione. Chiesi di Álvaro, suo marito, e lei mi rassicurò: No, Fernando, se è lui il tuo problema puoi tornare senza paura. Ha capito, s’è fatto comprensivo. Parlai anche con mia madre, per farla certa ch’ero vivo. Riconobbe la mia voce: Fernando, il secondo maschio della famiglia. Mi chiese di che vivessi, le dissi una bugia. Poi parlò confusa di certe foto che le avevano messo tra le mani. Le risposi di non preoccuparsi, che avrebbe capito tutto al mio ritorno: Verrò per la fine dell’anno, le promisi.

 

L’aereo atterrò a Lisbona dopo un transito a Casablanca. Erano le nove del mattino e primavera.

 

Arrivai nella capitale spagnola dritta dritta dall’aeroporto di Lisbona. In taxi, dodici ore di viaggio e quattrocento dollari per l’autista. Calle Atocha 13, l’indirizzo. La pensione, nel centro storico della città. Il padrone era un giovane brasiliano. Alcy, fu lui a darmi il tariffario. Mille pesetas per la bocca, duemila per il culo. In albergo potevo aumentare il prezzo fino a cinque, settemila pesetas. Gli chiesi anche tre frasi in spagnolo che mi segnò su un fogliettino.

 

Di Madrid non sapevo niente, non mi interessava niente, non vidi niente. Un marciapiede, un albergo, tre frasi in lingua sconosciuta erano la sufficienza. Sì sì, il cambio di clima, le strade, le chiese, i palazzi. Era quasi tutto diverso, una solennità. Non me ne fregava niente. In Europa non t’ammazzano sparata. Questo era importante, questo bastava. Tutto il resto, roba per turisti. Gli spagnoli da me volevano l’amore, e io ero venuta da molto lontano per concludere l’affare. Madrid, valeva la pena. Questa la certezza. Ad essa avevo appeso la mia determinazione, la partenza. La strada più lunga era la via più breve per accumulare il mio tesoro. Tutto qui, il rapporto con quella città era già chiarito. Affittai la camera, feci una doccia e chiesi ad Alcy di chiamarmi un taxi per andare a battere al Paseo de la Castellana, nel centro storico. Ero stanca ma non ebbi esitazioni. Cinque trans brasiliani che abitavano la pensione mi proposero di aspettarli che mi avrebbero iniziata. Fiutai il puttanaio e dissi di no, che volevo andare subito, da sola.

Appena poggiai un piede fuori dal taxi fui circondata da parole svelte, parole malamente. Taglienti e sconosciute. Una rissa di brutte intenzioni, erano tutti transessuali spagnoli. Il tassista mi aveva scaricato sul marciapiede sbagliato. Fui svelta, risalii immediatamente nella vettura. Tornai delusa e amareggiata alla pensione. Alcy mi spiegò l’errore: Le brasiliane stanno dopo il ponte, sempre sulla stessa via. Potevi finir male Princesa, i trans spagnoli con voi sono avvelenati. Per le tariffe, che avete ribassato. Per il casino che fate per la strada con clienti e polizia. Salii in camera e dormii senza interruzione fino al pomeriggio del giorno dopo.

 

Il mio primo spagnolo pagò duemila pesetas. Il secondo mille. Poi furono altre duemila. Scendevo da una macchina, salivo su un’altra. Rapida, rapidissimi i continentali. Veri coniglietti. Mai visti tanti soldi, mai lavorato tanto. Avevo i capelli neri lunghi fino al fondo schiena, minigonna brasileira su due tacchi alti che mi sparavano alla luna. L’unica mora della sera. Fu un avantindietro accellerato. Ogni dieci minuti un José bussava a bocca oppure per l’amore nel didietro. Trentadue clienti. Non è facile da immaginare. Difficile davvero. Fu il mio primato personale. Ero fresca di Brasile e qualcosa ai clienti lo diceva. Lo sentivo, da come li attiravo dentro il mio sorriso. Vendevo esotico, e soltanto alle sei del mattino l’ultima fantasia era esaudita. Io sfinita.

 

Fresca – che diavolo! – ero fresca, le altre appassite. Non che fossero più brutte, anzi, erano bellissime, molto più femmine di me, almeno alcune. Incandescenti, tutte avevano lavoro in abbondanza. Ben confezionate, i José spagnoli compravano straniero. Lo sa il demonio cosa compravano. I corpi erano un incanto, bombati ad arte a Rio o San Paolo. Ma sulla faccia niente, la porta era sprangata. Da lì non si arrivava a nulla. La vita, la morte l’appassiva in superficie. Eroina, seppi dopo. Tutte nel giro, tutte drogate. Io non bucavo, non sniffavo ancora. Si vedeva, mi vendevo bene.

Mara, detta Mara Sexy, una conoscenza dal Brasile, ebbe a che ridire, invidiosa, del mio superlavoro: Princesa, tu scopi gratis o fai sconti colossali! No, io applico il nostro tariffario, sono professionale!

 

Trentadue clienti – non è uno scherzo – il culo mi faceva male. Per carità, molti, una buona metà, passarono per altre vie che non erano il didietro. Ma la rimanenza, che non fu da poco, era di lì che era transitata.

 

Quando il lavoro è tanto ci sono le pomate. L’argomento è sgradevole, ruvido ma necessario. Le pomate, dicevo. Xilocaina e Furacin, erano quelle che usavo in Brasile su consiglio delle veterane. Capita, può capitare: su dieci clienti puoi trovarne due o tre che hanno il pene fuori del normale. È la mia statistica, tutta personale. La rottura di una vena nell’ano spesso ne è la conseguenza. Allora sono tre o quattro giorni di riposo e tanti soldi andati in fumo. Per evitarlo usavo Xilocaina, pomata anestetizzante, elasticizzante. Ancora prima, contro le infezioni, m’infilavo dentro anche una dose di Furacin, pomata antibiotica. Una prevenzione, anche questa per lavori in eccezione.

Diversa era la pratica prima del preservativo. Dieci anni fa. Quando l’amore non era ancora diventato un gran problema ed era senza pro-filattico che io facevo. Allora, accadeva che nell’intestino rimaneva lo sperma dei clienti. Dopo il lavoro facevo pulizia, ma non era mai completa e quel che restava usciva solo dopo alcune ore. L’accumulo e la compresenza di ferite favorivano l’insorgere delle infezioni.

A quel tempo la pratica era quella della penicillina. Per iniezione, fatta dal medico, dalla amica o dalla veterana.

 

Talvolta, sul fondo dell’abisso, – sorpresa! – risuona alta una risata. Accadde prima dell’uso dei preservativi, a Bahia. Avevo già fatto quattro o cinque clienti ed era trascorsa un’oretta vuota, senza lavoro, quando arrivò un José di cinquant’anni. Un uomo rozzo di campagna. Mi fu subito sopra e il dai e dai creò un risucchio di pressione che si portò dietro, fuori dall’ano, tutto il lascito dei clienti precedenti. Il povero campagnolo si vide il membro bagnato dal liquido seminale che non era il suo. Lo vide scorrere denso, fuori dal tondo e fece una faccia stupida, stupita. Una vera perplessità. Passò un attimo e tirò fuori la sua considerazione: Oh, Maria Vergine, tu vieni col didietro! Rimase stupefatto, in contemplazione. Per nulla al mondo l’avrei svegliato, rinsavito. Sì sì, dissi ridendo, è vero, io vengo col didietro!

 

Trentadue clienti. Il giorno dopo fu per le pomate e il riposo – i soldi li avevo già contati. Una notte madrilena valeva un mese di Brasile. Fantastico! Chiesi ad Alcy se m’accompagnava in banca a comprare dollari con le pesetas. Fu il mio primo gruzzoletto americano. Alcy fu scherzoso: Se il guadagno è questo, indosso una parrucca e vengo anch’io alla Castellana. Oh, Alcy, il culo ti farebbe male!

 

Sul marciapiede molti clienti mi scambiavano per Perla, la mia ammirazione. La notizia della sua presenza mi eccitò e iniziai a indagare in giro. Seppi che lei, anche a Madrid, era la Regina. Perla di Rio, fu lei la mia modella, la definitiva. Princesa & Perla, le gemelle. Due gioielli di Severina a bombadeira. Scandagliai di bicha in bicha. Io, la copia in cerca dell’originale. Tutte la conoscevano, mi riconoscevano. Ma nessuna sapeva dove fosse finita. Partita, così in molte risolvevano il mistero. Poi arrivò l’informazione: Perla non vuole essere vista, solo per te, un’eccezione. L’ebbi davanti, mi guardò, noi ci guardammo. La copia con l’originale. Era sdraiata su un lettino, dentro una stanzetta d’ospedale. Aids conclamato era la sentenza. Nei suoi occhi, fresca com’ero, non fui altro che una nostalgia. Una fotografia ingiallita, un tempo andato. Perla, lei moriva. Brillava, riflessa nei miei occhi, tutta la crudeltà del mio destino. Insopportabilmente. No, io non sono la copia, lei non è l’originale! Appiccicosa, solo a vederla, – guardandola che mi guardava, – mi incollò addosso quella schifezza di futuro. La Malattia. Io no, la sua rovina non è la mia. Io mi strapperò via da questo destino, dalla profezia. Perla non aspettò, non poteva sopportare. Si uccise qualche giorno dopo con un’overdose di eroina.

Fu tutta colpa della figlia del re. Transitò di notte per il Paseo de la Castellana su una vettura luccicante con tanto di svolazzo e luminaria intorno. Fu così che le vide tutte, splendide e spogliate. Così favoleggiavano i trans – le puttane. La figlia del Re di Spagna, però, sempre a loro dire, sembra non abbia gradito la visione. Forse per l’esposizione esagerata di tante natiche immorali. Forse per tutta quella immigrazione invertita, dal Brasile al centro dell’antico impero. Prese la penna e scrisse sul giornale: “Veados, Madrid da ripulire!” Fu per questo, mi spiegarono poi le mie colleghe, che a una settimana dall’arrivo i gendarmi mi afferrarono per un braccio. Gentilmente, devo dire, mi invitarono a sgombrare il marciapiede. Fu tutta colpa della figlia del re, dicevo, se dovetti rifare subito i bagagli e partire per Milano. Il centro storico, dopo quell’intervento sul giornale, venne interdetto ai trans brasiliani. Ci tolleravano soltanto sull’autostrada. Al buio, fuori della città. Una miseria, per di più pericolosa. Molti clienti disertavano l’appuntamento. Fu per questo che mi decisi per il trasloco.

 

Presi accordi con una bicha dell’albergo, conosceva la strada e qualche parola d’italiano. Altre mi diedero gli indirizzi giusti per Milano.

Madrid-Barcellona, fu il primo tratto. Tutto in treno.

Barcellona-Figueras, il secondo. Solo taxi.

A cento chilometri dalla Francia, sull’autostrada, iniziammo a chiedere un passaggio per entrare. Autostop, un camion era l’ideale. Due francesi ci fecero salire con la promessa di un’entrata clandestina. Prima però vollero scopare. Poco prima del confine, le carogne, ci scaricarono sul bordo della strada. Capii subito la malaparata e fui obbediente, sottomessa come un agnellino. L’altra, invece, montò su una protesta, rimediò un cazzotto in faccia e ci rimise la valigia.

Fu un camionista spagnolo a farci superare la dogana.

Con altri due passaggi arrivammo all’imbocco della Marsiglia-Nizza. Eravamo stralunate, sporche e affamate. Litigammo, io e la scema. La stronza, se la prese con la mia valigia per il fatto che nessuno si fermava. Per zittirla buttai tutto sul ciglio della strada. Non cambiò nulla, rimanemmo bloccate per la notte intera. Arrivò la polizia, ci nascondemmo. Senza visto l’espulsione era sicura. Al mattino ci affacciammo di nuovo sulla strada. Prima però ci fu un’altra litigata. Questa volta definitiva. Lei tornò indietro, io proseguii nel senso giusto per l’Italia, a caccia di fortuna.

 

Lungo i marciapiedi di via Melchiorre Gioia, vicino alla stazione di corso Garibaldi, io non seppi più se ero maschio o femmina, donna o uomo. Furono loro, i milanesi della prima notte, a precipitarmi nella confusione. E non certo perché il loro sguardo fosse rivolto al cielo, quelli non vedevano il più uomo di tutti gli uomini: l’Androgino: l’Adamo bisessuale.

No, quelli non pensavano, pagavano e toccavano. Guardavano basso, in mezzo alle mie gambe. Furono le loro mani, i loro bizzarri desideri che rimescolarono la mia fragile e chirurgica certezza: Fernanda, ancora uno sforzo nel finale, un piccolo difetto da eliminare. No, per loro quell’imperfezione era decisiva. Fondamentale. Me ne accorsi subito, nel parcheggio dietro il Luna Park. Furono in quindici, quasi tutti vollero toccare. Volevano vederlo, sentirlo dritto nelle loro mani il mio pisello. Solo così godevano, eppure, occorre dirlo, molti di loro sopra di me erano uomini che facevano. Quando il primo cliente prese l’iniziativa pensai che era normale. Anche in Brasile capitava, anche quello era un pezzetto di mercato. Ma al quindicesimo pensai che tutta Milano fosse viziata. Sì, perché fino allora quando un José veniva da me e pagava profumatamente, io, spontaneamente, pensavo che era la parte femminile che lui desiderava. Ma con quei quindici, e fu solo il primo assaggio, mi capitò di tutto. Era maschio e femmina che mi volevano.

 

Ottocentodiecimilalire, il guadagno della prima sera, mi offrirono una buona via d’uscita per quell’iniziale smarrimento. Un si-poteva-fare, un compromesso che un po’ tutti per lavoro sono costretti ad accettare. Io non ho mai capito se i milanesi comprassero una donna con il pene o un uomo con i seni. La cosa non mi interessava, era soltanto per lavoro, si poteva fare. In fondo, bloccata sull’invisibile confine, trafficavo per un futuro tutto al femminile.

 

Mi sistemai alla pensione Giava, in via del Lazzaretto. Ci ritrovai un pezzetto di rua Indianópolis e rua Augusto Severo: c’erano Jessica, Lenir, Angelica, Taís, Cintia Close, Tamara e altre di cui non ricordo i nomi. Mi diedero un letto nella camera di Jessica. Avrei preferito stare sola, ma c’era il tutto esaurito e quella fu l’unica soluzione. Lei andava sul volgare e per me, che di giorno ero una signora, era impossibile camminarci insieme. Non lo facevo a Rio, figuriamoci a Milano. Io con Jessica, per via Montenapoleone. No, non si poteva fare. Con lei, e con tutto il puttanaio, di giorno, non facevo comunella. Alla pensione Giava tutte noi camminavamo senza fare gran rumore. Il padrone era stato poliziotto, così si raccontava, e questo, per me che non bucavo né rubavo, si traduceva in un buon vantaggio. Infatti, quando la polizia arrivava era solo per il controllo dei passaporti. Per i fogli di via era lui stesso, il padrone, che provvedeva e proponeva. Telefonava alla questura non appena beccava dentro l’albergo qualcuno che spacciava oppure offendeva di lametta o di coltello. Lo stesso accadeva per quelle che non si adeguavano al suo regolamento: dalla pensione, di giorno, non si usciva vestite da puttane. Nessun cliente era ammesso nelle stanze. Il tutto mi sembrò un buon quadretto, compreso il padrone poliziotto.

 

Un cliente di quarant’anni frenò la macchina davanti alle mie gambe e dal finestrino accennò ad una fantasia. Io, che non capivo l’italiano, risposi con la solita recita a memoria: trenta in bocca, cinquanta per l’amore. In camera duecento, li portavo al Bari oppure al Serena. Insistette su particolari che non afferravo. Salii comunque nella vettura e dietro il luna park tirò fuori un paio di manette. Era così che mi voleva, legata al volante. Dissi no e lui raddoppiò il prezzo. Continuai nell’opposizione ma lui andò su di giri. Si eccitava nella contrapposizione. Disse parole e all’improvviso si fece autoritario. Tirò fuori il distintivo della polizia, spezzò la mia resistenza. Ebbe la vittoria. Con me imprigionata al volante fu libero di prendersi quello che desiderava. Forse era così che sognava i criminali. Pagò doppio e mi riaccompagnò preciso. Divenne un abituale.

 

Di giorno non giravo tanto, solo per lo shopping. Andavo sola, passeggiavo per corso Buenos Aires. Acquistavo doppio. Minigonne elasticizzate e body neri per la notte. Jeans e gonne lunghe per il giorno. Nelle boutique compravo anche su suggerimento dei clienti. Per uno che veniva con me solo se vestivo tutta in nero, e per un altro che mi desiderava con una veste lunga e indiana. Uscivo dalla pensione anche per mangiare. Spaghetti alla bolognese, filetto e tortellini divennero subito le mie passioni. Ma lo erano anche i ristoranti thailandesi e cinesi che ogni tanto frequentavo. Sempre rigorosamente sola, lontana dalle altre e dai problemi. Ero quasi una suorina. Ma se devo esse- re sincera, il più delle volte, il giorno si risolveva in una brevissima passeggiatina. Per un pezzo di pizza, per un calzone da mangiare in una squallida tavola calda due portoni affianco. Ero sempre sola. Facevo shopping, per la parola di un commesso che mi scaldava il cuore.

 

S’accostarono con una mercedes che era una nave. Lui elegantissimo, un uomo che era un pezzo di Milano. Quella che navigava bene, che d’inverno s’abbronza a Santo Domingo o sdraiata sulle spiagge thailandesi. Lei era biondissima, perfetta per la situazione. Mi proposero una notte insieme e andarono subito al pratico: Un milionecinquecentomilalire. Come insieme? Insieme, mi rispose. Io, te e la mia donna, a casa mia. Con te va bene, ripresi la parola, ma con la donna io non faccio! Chiedeva troppo, insistette. No, alla donna io non dò soddisfazione! Se ne andarono ma dopo dieci minuti riattraccarono al mio marciapiede. Fu lei che prese la parola, complimentosa: Ok, solo tu con lui, io guardo e non ti tocco. Ma pago solo settecento! Aggiunse l’altro tirando il collo verso il finestrino. Chiesi all’uomo una garanzia. Sì sì, sei garantita, lei guarda ma non tocca. Mi accomodai nella macchina e salpammo per una casa miliardaria che s’alzava su tre piani. Dentro una abitazione così non ero mai entrata. Musica, whisky e fui ubriaca persa. Mi giravano intorno, la testa mi girava. Capii che era lei l’indemoniata. Mi sfidava, provocava, ed io entrai nel gioco. Lui mi volle nuda, iniziai lo strip. Ma era lei quella che guardavo. Per tenerla lontana, per allontanarmi. Le rubavo l’uomo, fu questa la mia fantasia. L’idea che lievitò nella mia testa. Fui nuda, ed ero stella. Una cometa, lui mi accarezzò la coda. Fu a questo punto che m’imposi: Lei deve andare via, dissi convinta. No, lui mi rispose, non è questo il patto. Lei guarda, anche se non tocca. Giravo a mille: Con lei presente io non faccio! Lei stizzì, era eccitata. Entrò nel letto mentre lui già faceva. Scattai come una molla. No, stronza, con te non voglio! Mi avvicinò, la serpe, le sue parole mi leccarono gli orecchi. Era lei, più di lui, che mi voleva. Se mi tocchi spacco tutto! Non mi piacciono le carezze delle donne! Furono urla, voci alte. Mi agitai come una pazza. Lui intervenne spaventato, l’allontanò, faticò per trattenerla e farla ragionare. A quel punto la notte era finita, io incazzata. Mi rivestii, si rivestirono per portarmi in via Melchiorre Gioia: Voglio essere pagata per il tempo perso. Lui iniziò una contrattazione: Ti dò duecento. No, voglio le settecento. Lei s’era incarognita, la signora ora somigliava ad una puttana. Lui non metteva mano al portafogli, il pezzente. Bloccarono la macchina davanti alla Finanza e uscirono dalla vettura. Si allontanarono veloci dopo aver innestato l’antifurto. Questo iniziò a strillare come per uno scasso. Mi spaventai, dalla caserma avrebbero pensato che ero io la ladra, e non loro i truffatori. Veado, vestita da puttana m’avrebbero fermata. Scappai via senza un soldo in tasca.

 

Jessica s’era trovata il fidanzato. Lasciò la stanza per un appartamento, Cassandra occupò il suo posto. L’infelice mi rubò subito mille e ottocento dollari e qualche franco svizzero. Me li sfilò da dentro l’album di fotografie dove li nascondevo. Fu lei la ladra, ne sono sicura. Il padrone-poliziotto organizzò una perquisizione generale, senza risultato. Era stata lei, Cassandra, la bicha disonesta. Di suo, infatti, non era sparito niente. Era stata furba, me li rubò prima di andare a battere al Monumentale. Tornammo insieme all’alba e alla scoperta recitò la sua sorpresa. Erano sparite anche due fotografie dove ero proprio bella, due pose un po’ azzardate. Rovistai tra sue cose e per due volte fui lì lì per rifilarle una coltellata. Giuro, l’avrei fatto per davvero, ma col padrone-poliziotto sarei finita subito in galera. Cassandra divenne la mia nemica. Tutte mi diedero ragione, era lei la ladra. Ci furono litigi ma dalla stanza non se ne volle andare, fui io a cambiare albergo.

 

Traslocai alla pensione Clara, in via Pontaccio. Se penso a quell’ingresso non vedo più una porta che conduce dentro un edificio. Vedo una bocca che digrigna i denti. Un animale con pelle d’avvoltoio e stomaco d’acciaio. Il palazzo, nelle sue viscere tutto era corrotto. Lì dentro s’annodava un gomitolo di bisce. Ventiquattro, tra loro si accoppiavano. A me, l’ho già detto, quella pratica faceva schifo. Non che alla pensione Giava ciò non accadesse. Lì però tutto era ordinato, pulito. Il guardiano era poliziotto. Il tuo spazio, se volevi, lo preservavi da presenze non gradite. Al Clara era impossibile. C’era un commercio che inesorabilmente t’impigliava. Un porta a porta tra di loro e coi clienti.

Quando varcai quella soglia avevo già accumulato novemila dollari, altri diecimila e sarei rimpatriata col mio piccolo tesoro. Allora mi sentivo bene, in Europa per me spuntava l’alba. Oggi ricordo, mi rivedo entrare in quell’albergo ma c’è un sole che diventa nero. Presi una singola al quinto piano. Come al solito volevo stare sola, ma al Clara tutto s’aggroppava. Corpi e voci e non capivi niente. C’erano liti tra di noi e coi clienti. Tra le plastificate e quelle senza il silicone. Perché le seconde, per reggere la concorrenza, stracciavano i prezzi del mercato. Tutte si vantavano di aver trovato il ragazzino, il fidanzato. Quello di ognuna ovviamente era il più bello. C’erano furti e traffici di droga. Un bordello senza fine, giravano coltelli. Dopo ogni controllo della polizia c’erano sempre espulsioni. Ma per venti che partivano, in quel periodo, erano quaranta quelle che rientravano. Dal Brasile c’era l’invasione.

 

I trafficanti, con noi, facevano soldi buoni. Non spacciavano sul marciapiede perché era facile incontrare un cliente poliziotto che voleva la marchetta. La roba arrivava nell’albergo, era un trans argentino che organizzava la distribuzione. Tutte sniffavano, alcune bucavano. In albergo solo due la rifiutavano. Ed io, dopo una settimana, non ero più una di quelle.

 

Princesa, il tuo alito fa schifo. Se arriva al naso di un cliente ti rifiuta! Milano non è Rio, qui si lavora con la coca e l’eroina. Era Gianna che mi consigliava. Io, per essere giaguaro, buttavo giù un miscuglio di whisky e campari. Bevevo molto, e la notte era più leggera. Entrò nella mia stanza con una striscia di polvere marrone: Lascia l’alcool, sniffa questa, il cliente non sentirà più il puzzo. Non riuscii a finirla, quella striscia. Il fuoco mi uscì dagli occhi e vomitai nel cesso anche l’aria che avevo respirato. Il calore mi avvampò la pelle, i vestiti mi scottavano. Mi ripresi dalla botta e un’ora dopo ero su via Melchiorre Gioia che battevo nuda. Alle due di notte Gianna venne a trovarmi per vedere come stavo. Sniffammo un’altra striscia, mi costò cinquantamila lire. Tornai in albergo alle sei del mattino, dormii come una dannata. Mi svegliarono nel pomeriggio per un’altra striscia. Pagai altre cinquanta e rotolai a precipizio. Con l’inverno arrivò la mazzata, col freddo battere senza eroina era impossibile. La pelliccia da sola non bastava. Inoltre a Milano, se non battevi oscena, la concorrenza era spietata. Più sniffavo, più spogliavo. Fatta di eroina mi vendevo il culo e non sentivo niente.

 

Un cliente di trentacinque anni mi offrì mezzo milione per una notte intera. Mi chiese pure se tiravo cocaina. Ero già a rota, pippavo tutto, e non ebbi esitazioni. Era un bel moro. Aveva la barba e baffi spessi e neri. Atletico, un corpo da modello. Guidò veloce verso un albergo di Varese. Mi fece spogliare e poi mi chiese di passargli le mutandine. Se le infilò lungo due gambe maschie e pelose. Poi volle le mie calze e le scarpe con i tacchi a spillo. Si mise davanti allo specchio e iniziò a posare. Di fronte, di fianco, di dietro. Giravolta e avantindietro. Sbottai a ridere per quanto era grottesco, ridicolo sul serio. Un uomo barba e baffi vestito da puttana. Non credo di essermi mai divertita tanto. Era simpatico, non se la prese a male. Gli dissi, piegandomi in due dalle risate: Sei bello, sei donna e sei barbuta! Preso nella sua immagine non ascoltò nemmeno. Seduta sul letto lo guardavo, e un’ombra nera, un pensiero scuro, mi passò sul volto: C’è un uomo dentro i miei vestiti! Il suo numero di scarpe è anche il mio.

 

Erano in mille, forse duemila. Quella tempesta già la conoscevo. S’addensò in lontananza, con tanto di fulmini, tuoni e lampi minacciosi. C’era stata l’invasione, ed ora in via Melchiorre Gioia, ma anche via Pirelli, a San Siro e al Monumentale, gli abitanti della zona erano in agitazione: La polizia non provvede, facciamo noi da soli! Preservativi e siringhe nei parcheggi dove giocano i bambini. File di macchine, clacson, liti e caos fino alle cinque del mattino! Basta, facciamo pulizia! C’erano stati tanti titoloni sui giornali e proteste alla televisione. Ma era la prima volta che vedevo a Milano una burrasca di bastoni e manici d’ombrello. Ebbi paura ma non mi sentii persa. Qui, in Europa, non t’ammazzano per strada. Ma quella sera, se c’era il faccia a faccia, non erano solo pugni e legnate. I veados, messi alle strette, non sono tenerelli. Vengono da lontano, da un corpo d’uomo e da città immense e affamate. Sono in molti che sanno di coltello. Se c’era il corpo a corpo poteva anche scapparci il morto per strada. Ma arrivarono sirene e luci lampeggianti. Parole concitate tra polizia e manifestanti, accuse e battibecchi. Le urla smorzarono la rabbia e per noi che fuggivamo il rischio divenne soltanto quello di un foglio di via.

 

Al Clara, quella notte, erano in molte ad essere incazzate. Dicevano di aver visto tra i manifestanti anche i clienti.

Salii su un treno per allontanare la bufera. Su consiglio di Marly e Severina andai a Montecatini. Un bel paese, piccolino. Alloggiai al Buenos Aires per due settimane. Di giorno facevo marchette lungo l’autostrada. Di notte passeggiavo i marciapiedi di La Spezia. Anche a Viareggio e a Forte dei Marmi per noi c’era un buon mercato. Ma tra taxi, albergo ed eroina spendevo oltre mezzo milione al giorno e in tasca non mi rimaneva niente.

 

Le specchiere andarono in frantumi. Fragorose, tintinnanti. I vetri delle finestre saltarono giù per via Pontaccio. Cominciò così, alle nove del mattino. Quattro trans, quattro bulldog in minigonna bloccarono l’uscita. Noi altre, tutte dentro, divenimmo valchirie combattenti. Venti furie scatenate. Sniffammo, bevemmo, ci abbandonammo ad una guerra contro l’universo, alla demolizione dell’albergo inospitale. Scassammo tutto. Dai muri sradicammo i lavandini. La rabbia prese il ghigno di una festa indemoniata. Furiosamente. Nessuno ci fermava. Uscimmo dalle stanze con appresso fumo e fiamme. Urla maschili e corpi femminili. Le regine, le puttane. Culi dorati, serpi maledette. Repentinamente. Bastò un dubbio e l’esplosione risucchiò se stessa dentro una calunnia, la certezza: È stata Cassandra! È lei la ladra! Bastò un’insinuazione, divenne sicurezza. L’agguantarono per i capelli, le stracciarono le vesti. Le insanguinarono la faccia, la massacrarono di botte. Durò poco, ero lì dentro. In mezzo a tutto quel casino, unghie lunghe che affondavo. Per Cassandra non ebbi compassione, la nemica. Fuori di testa, ero fatta d’eroina. Salii in camera, presi il salvabile, diedi fuoco al resto. Provai a fuggire dall’inferno ma le quattro che stavano alla porta sbarravano l’uscita. Una gran bella pensata! Una stronzata. Volevano l’aiuto della polizia perché loro, le carine, si sentivano le vittime, e la devastazione meritata. Un atto di giustizia, una vendetta contro il mondo per il furto che avevano subito: una cinquantina di milioni sottratti dalle cassette portavalori. Sei di quelli erano i miei. Carabinieri, pompieri e poliziotti inchiodarono davanti al Clara, diedero uno sguardo, chiamarono rinforzi. Al commissariato ci chiesero i permessi di soggiorno e fu di nuovo rissa. Del furto non gli fregava niente. Ci diedero il foglio di via e la pensione venne chiusa per alcune settimane.

 

Il giorno prima ero tornata dalla Toscana. Non l’ho detto ma alla pensione scopavo gratis con il figlio del padrone. Mario, un ragazzino di diciassett’anni. Un uccellino che si affacciava al nido già pronto per il volo. Il piccolino, aveva un’apertura d’ali che era quella di un pappone – un malandrino. Il ragazzetto mi aveva fatto perdere la testa. Pieno di vita, per me era un vanto averlo dentro il letto. Per le altre solo invidia. Gli lasciai in custodia tre catene d’oro. Una gliela misi al collo e lui accettò il regalo. Divenni subito gelosa, inevitabilmente. L’agganciai alla mia catena con un clic dietro la nuca, ognuna che l’avvicinava diventava mia nemica. Sospettavo tutte, non volevo nemmeno lo guardassero. Ma il piccolo era carognetta, lo sapevo, l’avevo già visto in volo e lo stile era quello del magnaccia. Andava da quelle che sniffavano, gli chiedeva il culo, se rifiutavano lui le ricattava. Gli spillava i soldi, era bellino, era figlio di padrone. Per questo tutte per lui erano in gara. Quella sera lo trovai rilassato sul divano in compagnia di Giordana, una bicha che era una bellezza. Una siliconata, fresca fresca di Brasile. Era più femmina di me, entrai in fibrillazione. Gli passai davanti come se nulla fosse. Lui si alzò e venne a porgermi la chiave della stanza. Gli abbassai il collo del maglione per vedere se portava ancora il mio collare. No, mi disse, l’ho riposto nella cassetta portavalori. Salii al quinto piano e per telefono lo allontanai dalla concorrente. Sali, gli dissi, portami le tre catene! Me le mise nella mano, le buttai nel cesso con lo scarico in azione. Nel gorgoglio del water lui ci perse gli occhi. Vide l’oro scomparire e mi rifilò un pugno in faccia: Stronza, puttana maledetta! Figlio di puttana sei tu! Volevi regalarle a quel culo seduto giù di sotto! La brocca m’era partita. Stava sulla porta e gli chiusi le dita tra i battenti. Gli spezzai una falangetta. Lui urlò dal dolore e io – testa malata – minacciai di buttarmi dalla finestra per tenermelo al guinzaglio. Il giorno dopo partecipai alla devastazione.

Il primo foglio di via non era un gran problema. Battevo Milano ma già pensavo a Roma. Una piazza buona per sparire qualche settimana, sull’autostrada non ci volevo ritornare. Chiesi a Jessica di ospitarmi nella sua abitazione. Lei aveva il fidanzato e l’appartamentino. Mi chiese una cifra esagerata per una stanza in subaffitto. Con lei, però, non c’era alcun problema per rimediare l’eroina. Con lei mi arrivava dritta a domicilio.

 

Un cliente mi abbordò al Monumentale. Uno come un altro, niente di particolare. Mi chiamò per nome: Principessa, sei tu quella che cercavo! Salii in macchina e capii subito che era uno povero in canna, uno squattrinato. Non era un’intuizione da veggente, provò a chiedermi lo sconto. Erano trenta in bocca, cinquanta nel didietro. Lui lo sapeva, ma in tasca aveva solo quarantamila lire. Fui dura, dissi no: Per lo sconto cercatene un’altra. Va bene, disse mesto, vada per la bocca, a cinquanta non ci arrivo. Iniziai veloce per liquidarlo in fretta, ma lui non veniva. Passò un minuto, lentamente. Poi cinque, e ancora niente. La mandibola iniziò a farmi male. Provai di tutto, ogni tanto alzavo gli occhi desolata. Nulla, dovetti concedermi una sosta. Gli dissi di sbrigarsi che per trentamila non potevo farci giorno. Mi rimisi a testa bassa e tentai cento trucchi del mestiere. Niente da fare, il suo pisello era di gomma, non s’induriva. Se non me lo toglievo dalla bocca l’avrei azzannato. Mozzicato, per dar soddisfazione alle mascelle che m’imploravano di serrare. Mi girai sconfitta e gli dissi ok, mi arrendo, dammi altre diecimila e prenditi il didietro. Fu lungo uguale, s’agitò e venne. Era Domenico, diventerà il mio amante. Il fidanzato.

 

Promessa fatta, la mantenni. Presi un aereo per il Brasile. Prima di arrivare a casa feci una sosta a San Paolo per riprendermi dall’eroina. Non sniffai, tentai. Volevo presentarmi con il viso acceso, illuminata. Senza l’ombra pallida di Milano addosso.

 

Tutti aspettavano Fernando, quello che se n’era andato. Ma non avevo più vergogna, era Fernanda quella che tornava. Avrei affrontato Cícera, Álvaro e Adelaide, le mie tre preoccupazioni. Tornavo da mia madre, ma non risalivo alla sorgente. Come il piccolo fiume che attraversa la mia terra avevo cambiato nome e corpo seguendo la discesa, l’onda lunga che l’unisce al mare. Dove sei maschio o femmina senza rimedio. Ed io finalmente ero Fernanda, né gay né omosessuale. Perché mia madre mi voleva militare? Cícera mischiava i semi, io non li sapevo separare. Ero in trappola e non riuscivo a districarmi. Se non fosse stato per quello scherzo iniziale, per quel corpo che non mi corrispondeva, con lei avrei abitato bene. Ne sono sicura: Fernandinha, dentro casa a lei piaceva.

 

Tu sei mio figlio? Ma io t’ho partorito maschio! Pianse, si sentì in colpa. Se la prese con Dio, col diavolo, per quel capriccio che aveva coinvolto un innocente. Fernandinho, suo figlio. Voleva il mio perdono. Era invecchiata, singhiozzava per la confusione. Poi si risolse in volto asciutto e duro. La conoscevo bene quella sua espressione: Sei vivo, è questo l’importante. Sì, ero vivo, anche se indossavo una gonnella. Meglio così che bandito o criminale: la porta del paradiso per me non si sarebbe chiusa. Mi domandò se mi sarei sposata, se un giorno avrei potuto avere un figlio.

 

Adelaide rideva a crepapelle. Una risata cristallina, svaporò le lacrime materne. Coinvolse tutti nella sua allegria e iniziò la festa. Mi prese per mano, ci chiudemmo in una stanza: Fernando, Fernandinha, fammi vedere, sei come me anche tra le gambe? No, non ti faccio vedere, mi vergogno! Rideva, sorellina, mi tirava su le gonne. Entrai nel gioco e le mostrai i seni. Anche il sedere, era perfetto. I suoi occhi ridevano, meravigliosamente. Volle sapere dei miei amori, le dissi che ero fidanzata. Parlammo del trucco e di tutti i miei vestiti. Uno sfarzo, ero agghindata come una signora. Avevo con me pacchetti e pacchettini. Tutti regali da Milano, profumi, camicette e vestitini.

 

Edvania e Rosi le vedevo per la prima volta. Due nipoti di otto e nove anni. Giocavano, correvano, aumentarono la confusione. Nonna! È zia Fernanda lo zio che aspettavamo? Cícera non sapeva più dove aggrapparsi. Sì, Fernando è vostra zia. Una magia.

 

Álvaro, eccola qui l’altra preoccupazione, una sorpresa: davanti a quella mora prosperosa fu gentile e tollerante. Addirittura divertito. Alla partenza insistette per farmi rimanere.

 

Ero una favola, tutti mi vollero abbracciare. Per il Sítio la mia metamorfosi era un evento eccezionale.

 

Aldir, la mia prima gelosia, il primo sentimento. Bussò alla porta con sua moglie. Entrò, era già vecchio. Indeciso, mosse un passo, poi ci fu l’abbraccio. Ero profumata, ben vestita, come una diva della televisione. Mi strinse forte. Il nostro segreto era stato custodito. Parlammo fitto, di me, di lui e del suo figlioletto. La moglie non digerì l’esclusione. Non capiva, noi non le badammo. Solo Cícera si accorse della sua gelosia. La prese da parte e le disse di non preoccuparsi. Le attenzioni che Aldir mi rivolgeva non erano peccato. Era Fernandinho, il cuginetto, quella che suo marito accarezzava. Innocentemente, la contadina faticò di testa: Se quella donna è un uomo, non devo essere gelosa. L’ingenua, il giorno dopo venne a portarmi le sue scuse.

 

Maria Aparecida fu una contentezza: Oh, Fernandinho, dov’è il tuo principe azzurro? In Italia, Aparecida. Tornammo intime, mi chiese se avevo le mestruazioni. Arrossii, glissai con un giro di parole.

 

Genir, lui mi sorprese. Si presentò con barba, baffi, due figli e una seconda moglie appresso. Il piccolo toro era cresciuto. Ci chiedemmo che cosa fosse successo. Arrivò anche Ivanildo e fu di nuovo festa. Noi tre, i giochi della foresta.

 

A Campina Grande aprii un conto in banca, una decina di milioni. Gran parte del tesoro me l’aveva rosicchiato il vizio maledetto. Sull’aereo, volando per Lisbona, giurai a me stessa che non avrei più sniffato. Solo tre mesi di lavoro intenso e poi sarei per sempre ritornata.

 

La prima notte, al Monumentale, lavorai senza eroina. La seconda ricominciai peggio di prima.

 

Domenico, divenne un cliente abituale. Sempre in macchina, l’albergo per lui era costoso. Era lento, interminabilmente. Non gli concedevo sconti, poi divenne mio marito. Il principe azzurro montava gli antifurti, un operaio. Gli proposi il viaggio di nozze in Brasile. Gli chiesi di affittarmi un appartamento e lui lo prese. In via Leoncavallo, dentro una bella palazzina. Per mettere insieme i tre milioni dell’anticipo partii per la capitale. Milano era appestata, invasa dalla concorrenza. Di Roma, invece, si parlava bene.

 

L’esordio lo feci in via Padre Semeria, la Fiera di Roma era il riferimento. Un teatro sottotono. Un inizio stravagante. Un gran signore brizzolato pagò triplo per bere whisky dalla mia scarpa. Divenne un abituale. Delicatamente, una volta a settimana, mi sfilava il calice dal piede. Colmo di liquore se lo portava religiosamente in bocca. Nella scarpa, il suo delirio. La bordeggiava con le labbra, la sfiorava con le guance. Affettuosamente, tra le sue mani, la baciava sulla punta.

Poi scelsi l’Eur, battevo sotto il fungo, ed era la mia zona preferita. Strade larghe, tanto verde intorno, una concorrenza misurata. Non c’era bisogno d’indiavolare la marchetta con culi scoperti, strip e tutti gli accessori. Il cliente romano andava sul serioso, talvolta battevo anche con la gonna lunga, salvo poi invogliarlo all’occasione. Anche il lungotevere era una bella passeggiata. Il Flaminio, invece, l’avevo scartato ancora prima di arrivare. Lì c’era il puttanaio. Spettacoli infuocati, la solita giostra di abbaglianti, liti, clacson e proteste della gente. Un circo urlante, il fermo di polizia era una certezza.

Uno era grasso e l’altro magro: Signorina, favorisca il passaporto. Accadde mentre camminavo per via Palestro con Daniela. Lei s’era appena allontanata per incontrare il trafficante. Eroina, anche a Roma, inesorabilmente. Io l’aspettavo fissando alcuni pupazzetti di peluche che mi guardavano curiosi da dentro una vetrina: Il passaporto sta alla pensione Primavera di via Principe Amedeo, risposi agitata ai poliziotti. Col cuore a centoallora ci arrivai scortata dai due agenti. La vecchia, occhi di mostro, sostava sulla soglia dell’ingresso. Nella pensione, in assenza del padrone, era lei che governava. Gli consegnò il mio passaporto, mi allontanarono dalla conversazione. I due, la vecchia e arrivò anche il padrone. Intuii l’andazzo, presi la chiave della camera e mi chiusi dentro. Col telefono chiamai la vecchia: Ti prego, non farli entrare. Impossibile, sono della polizia! Bussarono, aprii. Furono dentro, il grasso con il magro. Il primo mi fu subito addosso. Il secondo, ipocrita, gli diceva di lasciare stare. Il ciccione mi prese il culo, l’altro rimase a guardare.

 

Mi nascosi sotto il letto: Domenico mi tradisce, pensai aspettando che arrivasse a casa. Ossessivamente, ero di nuovo posseduta da quel sentimento devastante: Per cinque giorni resta solo, sicuro, lui va con le altre e gli paga la marchetta. Oppure porta le donne nell’appartamento, il maritino. Ero partita per Linate con l’anticipo di un giorno, volevo fargli una sorpresa. Lo sapevo, quella sera sarebbe passato per via Leoncavallo prima di andare a dormire dalla mammina. Lo sentii manipolare con le chiavi dietro la porta, ma non gli corsi incontro ad abbracciarlo. Mi infilai sotto il letto, non mi feci trovare. Fu tutto regolare, non aveva trans o donne appresso. Concluse quello che doveva fare, spense le luci e chiuse la porta. Io restai dentro, sniffai una striscia per dormire. Con un’altra ancora, al mattino, mi preparai per il week-end da signora. All’Idroscalo, preparando a casa la cenetta.

 

Occhi di mostro, il combattimento era iniziato: Sono malati, ecco perché vengono con te, schifosa! Sono affari miei, stronza, voglio vedere cosa dici a tuo figlio se scopri che va coi transessuali! Gli sputo in faccia, cosa zozza, lo caccio via di casa! Sei invidiosa, per te ci sono solo i vecchi storti, da me vengono i ragazzini. Cinquant’anni, occhi di mostro ci odiava, mi detestava. La ladra di profumi, la grassona. Con la scusa delle pulizie sparivano le bottigliette. Ero salita con un cliente per fare una marchetta lunga una notte intera. Per la camera, in questi casi, c’era sempre da pagare doppio. Ed è il cliente che deve chiudere quel conto. Il mio lo fece, ma la megera venne da me a pretendere di nuovo il saldo. Trovò la lite, fui velenosa. La guerra era cominciata. Per la storia dei due poliziotti, per i furti, per la sua faccia soddisfatta. Un rospo, la bavosa era baffuta.

 

Un’altra striscia di eroina. Le tre di notte, l’ultimo cliente. Uno di quelli che sembrano arrivati. Body building, cravatta allentata e qualche ricciolino. Un vestito che era una divisa. Sono tutti uguali, li vedi in Prati alle nove e trenta del mattino. I finti, i precisini. Per me, l’ultimo incasso della nottata. Dentro una bella macchina, mi penetrò prendendomi da dietro. Con la mano mi frugò davanti: Ma tu sei maschio! Esclamò, s’innervosì, ebbi paura. Cominciò a colpirmi sulla schiena. Non farmi male, ti dò i soldi indietro! Me lo staccai di dosso, lui mi teneva. Spingeva, il finto. Sì che lo sapeva! Solo veados a quell’ora del mattino. Risaputo, lui mentiva. Si raccontava la bugia, il frocio camuffato. Non mollò la presa, mi scopava, sembrava una tragedia, mi stringeva anche l’uccello: Ormai ci sono e faccio, la giustificazione. Pagò cinquanta e scappò veloce, il suo piacere l’inseguiva.

 

Michelle batteva il lungotevere, era morta. Ossuta, senza più carne addosso. Una schifezza di mondo andava ancora a chiedergli la marchetta. Pagavano, per grufolare dentro quel cimitero. Al Flaminio, poco tempo prima, era una stella. Bionda, di origine tedesca. Un angelo atterrato a Roma dal Brasile. Sul lungotevere parlammo per cinque minuti. L’Aids era conclamato, i segni un’evidenza. Li ho visti con i miei occhi, fermavano la macchina e lei saliva. Ma come fai Michelle? Fermati, altrimenti è la rovina! Vedono la morte che cammina eppure non gli frega niente. Pagano, per un orgasmo dentro quel disastro. Io non so cosa li morde nella testa. Non vogliono il preservativo, pagano doppio se li accontenti. Ma Michelle era già cadavere, si vedeva. Perdio, nemmeno in Brasile le avrebbero chiesto la marchetta. Li ho visti, li rivedo ancora. Sul lungotevere che scherzano, contrattano il prezzo con la morte. La loro, quella che hanno dentro il cuore. Lei no, Michelle era viva. Faticosamente, combatteva per i suoi tre grammi di eroina. Dei vizi decadenti di tutti quei merdosi non le importava niente. Si ribellava, rassegnata nella sua rovina. Terribilmente, lei viveva. Penosamente, morì per un infezione polmonare. Finì così, con l’aids e l’eroina.

 

Calú bucava forte, le vene dell’inguine già bruciate. Si iniettò una dose non tagliata e morì all’istante. Con lei, quella sera, c’erano due maledette. Le due disgraziate la videro morire. Non mossero una paglia. Le jene, le sfilarono dal braccio l’orologio. Frugarono negli abiti, dentro i cassetti. Le arraffasoldi, le rubarono altri diecimila dollari. La trascinarono fuori dall’appartamento tirandola per i piedi. L’abbandonarono sulle scale per non avere problemi con la polizia: Il denaro serve ai vivi, i morti non lo sanno usare! Le due fogne, erano sue paesane. Non le organizzarono nemmeno il funerale, la spedizione della salma. La buttarono via per le scale. Ecco perché mi vergogno della mia categoria. Tra transessuali c’è solo invidia e gelosia. C’è cattiveria, rapina e infamità. È così, le altre sono favolette da salotto, storielle imbellettate. Lo dico io, Fernanda, Princesa e transessuale.

 

Ancora un’altra striscia, la notte mi scappava. All’Eur, sulla Colombo, non mi accorsi nemmeno che s’era fatto giorno. Mi ritrovai puttana in mezzo a tanta gente, la luce del sole che svelava lo sconquasso. La disfatta, dopo tanti corpi addosso. La mezza pelliccia di finto leopardo presa all’Upim dell’Esquilino mi inchiodava come un riflettore acceso sul protagonista: un clown, una puzza di piscio a colazione. Erano le sette del mattino, mi ritrovai in mezzo a tute d’operai, studenti e donne di servizio che andavano nelle ville a fare pulizia. Tutti andavano al lavoro, dignitosamente. Non c’era un taxi a pagarlo oro, sprofondai nella vergogna. Io, che di giorno ero una signora, confusa con le maledette. Con quelle che dopo la nottata insistono intorno alla stazione. Sfatte, il trucco liquefatto che gli sbrodola sul viso. Entrano e escono dalle pensioni, non si danno pace. Trafficano, la barba che rispunta. Cercano coca ed eroina, le pagine sbagliate. Sono sempre fuori posto. Per questo dalla pensione uscivo poco, dal lavoro rientravo sempre che era ancora buio. Ma quella notte m’era scappata. Sull’autobus tutti mi guardavano, sentii gli occhi di mia madre addosso. Accesi la luce della stanza, illuminai la mia desolazione. Telefonai a Domenico che stavo male: Vieni a Roma, non ce la faccio a partire per Milano. Mi addormentai, anestetizzata da un altra striscia d’eroina.

 

Domenico non voleva assumersi le sue responsabilità. Non mi presentava ai suoi fratelli, ai genitori. È pazza, è una pretesa stravagante, penseranno i benpensanti. Ma io credo che un uomo debba avere il coraggio delle sue azioni. Davanti a Dio e alla società intera. Domenico, invece, della sua famiglia aveva paura. Era fragile, lo vedevo. Gli pagai l’aereo per venire a Roma. L’accolsi bene, prima tirai su altra eroina. Veniva il fidanzato, il maritino. Me lo rivestii da Coin, gli comprai le scarpe in via Merulana. Piena di buste e bustine recitavo un sabato sera con un bell’uomo affianco. Una normalità, la mia follia. In camera andavo al bagno a sniffare di nascosto: Vieni con me, andiamocene in Brasile, non resisto. Lo sai, non posso, c’è mia madre che sta male. Mi aggrappavo a lui per uscire dalla melma ma l’appiglio non reggeva. Cedeva, la fanghiglia mi travolgeva. Tornò a Milano, di lunedì ricominciavo.

 

Occhi di mostro mi attaccava. Sputava freddo sui passi che lasciavo. Vennero di nuovo, il grasso con il magro: Dov’è la mora dell’altra volta? È in camera, sempre alla diciannove, il rospo, la confidente gli parlava. L’odiavo, l’odiavamo. Era una spia. Vidi tutto attraverso uno spiraglio e mi rifugiai nella stanza di Daniela. Bussarono, una bussata poliziotta. Nessuno aprì la porta, se ne andarono delusi.

 

Mi beccarono col culo nudo, ebbi il quarto foglio di via. Un altro ancora e c’era l’arresto o l’espulsione. L’avvocato mi spiegò la procedura, pagai salato ma sistemò tutto. Uscii dall’Italia con un aereo per Lisbona, solo tre giorni. Rientrai dalla Svizzera, sempre clandestina. Quella breve uscita aggiustava la mia posizione. Avevo bisogno di soldi e la sera stessa che atterrai a Fiumicino arrivando da Linate salii di nuovo sulla giostra che girava. Ricominciai a sbattermi tra Caracalla, l’Eur e lungotevere. Pippavo coca e eroina per lavorare. Battevo per sniffare. Del tesoro accumulato non rimaneva quasi niente. Spendevo tutto tra Roma e Milano, per droga, viaggi e tutto il corollario. Nella cassetta della pensione Primavera rimanevano solo quattromila dollari. Una miseria, avevo smesso di sognare.

 

Mi striscio gli occhi coi colori, impasto le labbra di rossetto. Non è più il bel rituale, profumo il corpo, lo porto alla svendita finale. Sputo sperma, mi ungo il culo. Sniffo eroina, non ho più futuro. L’Europa è spenta, io brancolo nel buio. Non so più che voglio, perché lo faccio. Non fa più giorno, non so più chi sono. Perla, Dio mio che destino, non me la stacco più di dosso. Sento le voci. Cícera, voglio dormire. Addormentarmi, dentro una carezza. Io mollo tutto, torno a casa. Ma che si suona questo stronzo! Sì sì, la faccio la marchetta: Cinquanta il culo, trenta il bocchino, ma abbassa gli abbaglianti stronzo! Dio mio no, questo è l’inferno, questo è un infelice. Tra le gambe ha un cazzo che è un fondo di bicchiere, un disgraziato. Parla, parla, parla, vuole parlare della sua disgrazia. Tutte le donne l’hanno abbandonato. Ma io che c’entro? Ognuno brucia solo nel suo inferno. Il nostro, tra le gambe. No, la marchetta non te la faccio, tu sei malato, vattene da una puttana. Ma lui mi parla, io sono al buio. Tiro su una striscia, non scendo dalla vettura. Lo sento, non ascolto. Soffia vento nella mia testa. Un poveraccio, un derelitto. Dio mio, che faccio. Mi ungo ancora il culo, non c’è preservativo che lo contenga. Perché non me ne vado? Piano, fai piano animale! Fermati stronzo, non ce la faccio! Perdo sangue, mi scalda tra le cosce. Vattene via bestia, lasciami stare. Ha la testa tra le mani, io l’insulto. È solo un infelice, ma io non ce la faccio. Via tutti, voglio soltanto dormire.

 

Stavo male, il sangue rappreso tra le gambe. Ancora una sniffata, volevo finire, chiudere gli occhi nel mio letto. Riaprirli, su pareti e volti familiari: Domani parto per il Brasile, mollo tutto. Ma occhi di mostro stava sulla soglia che aspettava. Dammi i soldi vecchia, domani parto. Niente soldi, principessa, la tua cassetta è vuota. Rideva, la bavosa. Il rospo maledetto. Tira fuori i soldi che ho depositato, se no t’ammazzo! Chiama la polizia, se hai coraggio! Due amiche mi portarono via, mi chiusero nella mia stanza. Immobile, l’universo mi rovinava addosso. Mille mani mi facevano a brandelli: Io l’ammazzo a quel diavolo inquartato! Aprii la porta, stava spicciando la cucina. Vedevo solo orrore, non vedevo niente. Fece un urlo, m’accecò la testa. Accoltellai il mondo colpendola alle spalle. Lei s’afferrò al mio braccio con forza disumana. Il mostro, mi vomitava ancora addosso: Frocio maledetto ti farò internare! Le rifilai la seconda e la terza staffilata. Io sono maledetta. La vecchia, per terra, ansimava. Sanguinava, era anche lei una poveraccia. Fuori di senno, corsi per via Manin verso la chiesa all’Esquilino. M’inseguivano, gli insulti mi mordevano alle spalle. Ero maledetta, m’avrebbero linciata. Urlai che ero assassina, mi consegnai a una volante che passava. Chiesi aiuto, la muta di rabbiosi alle spalle ringhiava. La pattuglia mi portò via in manette. Ero salva, lontana da una folla che non c’era.

 

Ci fu il processo, una condanna: sei anni per tentato omicidio. Mi fecero le analisi: sifilide e sieropositività.

 

Senza sforzo, nelle braccia del demonio, in Europa, ci si arriva a bassa voce, silenziosamente. Qui da voi, non si muore fragorosamente. Sparati o di coltello, tra urla e sforbiciate.Qui si sparisce zitti zitti in sottovoce. Silenziosamente. Sole e disperate. Di aids e di eroina. Oppure dentro una cella, impiccate a un lavandino.Come Celma, che vorrei ricordare. Dormiva nella cella a fianco, dentro quest’altro inferno dove ora vivo e che ho deciso di non raccontare.

 

 

Intervista*

 

Maurizio: Princesa. Qual è la storia di questo nome?

Fernanda: È una storia curiosa. A vent’anni, nel millenovecentottantatre, lavoravo in un ristorante molto famoso; un ristorante che aveva due padroni, due fratelli, entrambi ufficiali dell’aeronautica. Si chiamavano Omar e Risomar. Io lavoravo in cucina. Ero il sostituto di un cuoco che si chiamava Arlindo. Un giorno Risomar si lamentò con Arlindo. Gli disse di non fare i due riposi settimanali proprio nei giorni in cui veniva a pranzare, e questo perché nessuno sapeva fare il suo piatto preferito: il filetto alla parmigiana. Arlindo rispose che c’era un’altra persona che poteva farlo buono come il suo. Risomar chiese chi fosse questa persona e Arlindo rispose che potevo farlo io: Fernandinha. Accadde così che Risomar, davanti a tutti, mi disse: Senti mia princesinha (principessina), se riesci a fare il filetto alla parmigiana come piace a me sarai la princesa del mio ristorante. Dopo un po’ chiamai il cameriere per portare a Risomar il mio filetto alla parmigiana. Tutti, in cucina, pensarono che mi sarei presa un rimprovero. Invece Risomar mi fece i complimenti e mi aumentò anche la paga. Fu così che divenni Princesa. Poi, di notte, molti clienti quando mi cercavano chiedevano: Chi è la bicha che si chiama Princesa? Anche qui, nel carcere di Rebibbia, quando arrivai, nel novantuno, gli altri trans mi conoscevano come Princesa. Oggi preferisco essere chiamata Fernanda. È più discreto, Princesa non si capisce. Una volta in un bar un trans mi chiamò Princesa e tutti i clienti si voltarono per vedere chi fosse questa Principessa. Fernanda è più discreto.

 

Fuori ti capitava spesso di dover discutere con le persone che incontravi per essere chiamata con il nome femminile di Fernanda?

No, non ho mai avuto bisogno di discutere molto per farmi chiamare Fernanda. Anche le persone che conoscevano il mio nome da maschio, come i padroni delle pensioni in cui abitavo, mi chiamavano Fernanda. Con rispetto.

Fuori dal carcere chi mi conosceva mi chiamava Fernanda, anche se sapeva che sul mio passaporto c’era scritto Fernando; altri mi chiamavano signora o signorina. Fuori non ho mai avuto problemi al riguardo. Mai. Nei ristoranti i camerieri mi chiamavano signorina. Anche i clienti che mi usavano come uomo, mi rispettavano come donna.

 

E in carcere, come ti chiamano le guardie, gli operatori penitenziari, i medici e gli altri detenuti?

In carcere le guardie, per rispetto del loro lavoro, per la direzione, mi chiamano al maschile; sono obbligati. Ma se fossero fuori non mi chiamerebbero al maschile, mi chiamerebbero Fernanda, ne sono sicura. Due anni fa, quando ero fuori, ho conosciuto uno di loro. Era mio cliente e mi chiamava Fernanda. Quando però mi incontrò qui dentro, forse per non attirare dei sospetti su di sé, cominciò a chiamarmi Fernando. Capisco molto bene perché abbia fatto così. Qualcuno di loro, per scherzo, senza che gli altri vedano mi chiama al femminile, una cosa normale. Anche il direttore del carcere mi chiama Fernando, per forza, ma non ho dubbi, se mi avesse conosciuta fuori mi avrebbe chiamato Fernanda. Il prete mi chiama Fernanda. Qualcun altro, i volontari della Caritas e qualche medico, mi chiamano Fernanda. Però è una cosa normale per questa gente avere due regole. Per i detenuti, invece, c’è solo una regola e basta: Fernanda.

Da quando sto in carcere, solo due tra i detenuti che conosco mi chiamano al maschile. Non ho mai capito perché chiamano solo me al maschile, mentre gli altri trans, molto più maschi di me, li chiamano al femminile.

 

Qualche tempo fa ho visto un trans di nome Kelly litigare furiosamente perché un detenuto, con disprezzo lo aveva chiamato “frocio”. È una cosa che accade spesso in carcere? E fuori?

No, è una cosa che accade solamente in carcere. Fuori dipende da come uno si comporta. Fuori, a chi si comporta bene, non succede. A me non è quasi mai successo, solo con qualcuno ubriaco. Conosco un trans che in carcere è considerato la più femmina. Per come si comporta dicono che sembra una ragazzina. Si chiama Celma. È veramente la più femmina, nella voce e nel comportamento. Eppure ho visto qualcuno, sia tra i detenuti che tra le guardie, chiamarla frocio. Ho visto delle guardie chiamare frocio anche Gianna, un trans molto femmina, ma forse in questo caso è proprio per come si comporta. Tra di noi non usiamo mai questa parola. Anche se ci sono alcuni che hanno la barba, io ho sempre avuto per loro questo rispetto. Anche se non siamo mai d’accordo, su questo però ci rispettiamo.

 

E tu ti arrabbi se qualcuno ti dice che sei un gay o un omosessuale?

Mi arrabbio sì! Perché anche se faccio parte della stessa razza, e faccio quello che fa anche il gay o l’omosessuale, siamo diversi. Il gay si presenta davanti alla famiglia come un uomo, vestito da uomo. Solo di nascosto vuole dire che è femmina. Tanti di loro vanno sia con le donne che con gli uomini; poi usano la cravatta. Il trans, invece, si traveste da donna davanti a tutta la società.

Anche se c’è poca differenza tra gay, omosessuale e trans, ed è quasi tutta la stessa cosa, il gay è riservato; il trans, invece, non ha paura, è dichiarato, si mostra a tutto il mondo; l’omosessuale è discreto, nasconde il suo disagio o il suo vizio alle persone estranee. Comunque, ognuno ha il suo carattere.

 

Bene, se ho capito, da quando hai deciso di diventare Fernanda anche nel corpo, molti ti chiamano al femminile, ma capita però che certi clienti alcune volte ti chiedano prestazioni da uomo.

Sì, questi però non sono solo clienti dei transessuali, sono anche clienti delle donne. Non esiste una pratica per cui si può dire che questi vanno solo coi trans. Questi vanno sicuramente anche con le donne.

Comunque è vero, ci sono clienti che ci chiedono un comportamento da uomo con loro. Ecco la confusione. Generalmente quasi tutti sono sposati o hanno una donna al loro fianco. È qui che molta gente si sbaglia: quando si pensa che se un uomo va con un trans sia, per questo, un frocio. Non è così.

Certo, se si vede quest’uomo con un gay è diverso! Perché il gay che aspetto femminile ha da offrire a un uomo?

Insomma, ci sono clienti che vogliono dal trans solo comportamenti da uomo. Ce ne sono altri invece che chiedono al trans tutte due le prestazioni: da uomo e da donna.

 

Anche tra i transessuali in carcere c’è chi si comporta da uomo?

Sì, c’è chi si comporta così. E non solo in carcere ma anche fuori. Il motivo sono i soldi. Anch’io mi sono comportata da uomo per ottenere soldi da questi clienti. Mai però mi sono comportata da uomo con una donna o con un altro trans. Per me un trans che si comporta da uomo con un altro trans è una tristezza, uno schifo. Conosco tanti trans che lo fanno. Anche con me hanno voluto provare, sia dentro che fuori. Un mio connazionale ci ha provato. Ha insistito, ho detto no. Io non so che piacere ci sia a fare la donna per un altro trans, a me dà noia. Io ho sempre accettato l’amore solo dei maschi maschi, anche se un pochettino fantasiosi. Se un transessuale fa da uomo per un altro transessuale in carcere vuole dire che lo faceva anche fuori. Che gli piacciono le donne e non gli uomini.

Ho conosciuto un ragazzo al quale piaceva andare in moto. Sono salita dietro di lui, era freddo e mi sono stretta a lui. Le tette toccavano le sue spalle. Lui mi disse che gli piaceva sentire il mio petto sulla sua schiena mentre andava in moto. Dopo quella corsa ho verificato che quel ragazzo era un uomo vero, aveva soltanto una fantasia diversa, particolare. Allora gli ho chiesto: Ma anche quando porti le donne in moto tu provi lo stesso piacere che provi con me? Mi ha risposto che non gli piacevano le tette delle donne per quella fantasia lì. Non era un frocio, era un uomo e penso lo sia ancora oggi. Lo so, chi ha la lingua velenosa probabilmente farà un pensiero malizioso.

 

Ad un certo punto della tua vita hai deciso di diventare Fernanda sia di giorno che di notte. Come doveva essere Fernanda di giorno? E come di notte?

Dopo essere arrivata dove ero arrivata, anche se il mio corpo era cambiato, la difficoltà rimaneva sempre la stessa. Per vivere dovevo prostituirmi. Altrimenti come fare per l’affitto, per mangiare, per i vestiti o per tutte le altre cose?

Ho iniziato a prostituirmi dieci anni fa. Sono cose che accadono anche nella vita di una donna normale. Per non dipendere da nessuno, per vivere a modo mio. Comunque, a me piace vivere così. Di notte mi vedono tutti. Se come puttana voglio guadagnare un po’ di soldi in più devo esporre il mio corpo. Ma solo di notte, solo nella zona dove vado per quel tipo di lavoro. La sera, o di notte, quando non lavoro, invece, mi piace vestire come una signora sposata. Anche se non ho un marito, mi sono sempre comportata così. Di giorno non sono mai andata in giro vestita come una puttana; a me fa schifo una donna che si comporta da puttana davanti a tutta la gente, davanti ai bambini o alle persone anziane. Di giorno si deve avere un po’ di rispetto per se stessi. Io non ho mai fatto lo spogliarello di giorno, a meno che non fossi in spiaggia. Di notte sì, l’ho fatto per quei clienti che altrimenti non sarebbero venuti con me; per non perdere ogni notte tre o quattro clienti che, al minimo, mi rendevano duecento o trecentomila lire. Con lo spogliarello i clienti avevano soddisfazione, io i soldi. Ero obbligata a farlo. Sul marciapiede stavo in mezzo agli altri trans, alle puttane, ai froci, insomma, in mezzo a uomini di tutti i tipi. Se mi fossi vergognata gli altri trans mi avrebbero preso il cliente. Non era facile, c’era la concorrenza. Quando non c’era concorrenza lavoravo anche vestita normalmente. Insomma, di notte facevo la puttana. Ma negli ambienti dove giravo di giorno ero una signora ed ero sempre rispettata.

Quando ero ancora un gay, o meglio, quando ancora non avevo le tette ed ero una cosa che manco si capiva cosa ero; quando ancora non avevo nessun lineamento femminile, non avevo le protesi di silicone e il dosaggio ormonale che ho oggi; ecco, allora, già avevo l’intenzione di copiare e di essere come una attrice brasiliana molto famosa, Sonia Braga. Io la vedevo nei film, nei canali della televisione brasiliana. Come donna, Sonia Braga è perfetta. Ha i capelli lunghissimi come piacciono a me. La sua pelle è mora, non scura. Il suo viso è un po’ magro, non appallonato. Il suo fisico, per come lo vedo, è perfetto. Ho sempre avuto lo stesso desiderio: essere come lei, come Sonia Braga. E oggi, se mi guardo allo specchio e vedo Sonia Braga nelle riviste, vedo che la differenza è poca!

 

Ci sono delle differenze di forma tra il corpo che si fanno costruire i transessuali brasiliani e quello dei transessuali italiani?

Sì, c’è differenza e si può notare molto bene. Per i transessuali brasiliani il corpo viene costruito con la preoccupazione di avere bene in vista la parte che richiama di più l’attenzione degli uomini, principalmente degli uomini brasiliani. Questa parte è a bunda, o bum-bum, il culo. Se hai un bel culo allora va bene! Poi ci sono le altre parti del corpo, dove, se si fa fare un bel lavoro, si riesce a togliere anche il 60% dei tratti maschili. Il petto grande, ai brasiliani, non piace tantissimo. Le donne brasiliane devono avere la misura del petto in accordo col fisico, mentre tutte esagerano con il sedere.

I transessuali italiani, invece, hanno il petto grande quanto il culo è piccolo. Tanti di loro hanno paura di fare il silicone e, quando sentono parlare del rischio che si corre, lasciano perdere. I trans italiani non danno molta importanza al sedere, si preoccupano di più del petto. È sufficiente che il petto sia grande e per loro tutto è a posto.

In Brasile ci sono persone che diventano ricche applicando il silicone. Alcune lavorano dentro cliniche specializzate, altre fanno le applicazioni a casa loro. In Brasile a usare il silicone hanno cominciato i travestiti, dopo di che molte donne si sono chieste come fosse possibile che un transessuale potesse avere un corpo femminile più bello ed armonioso del loro. Sono tante le donne che invidiano i transessuali, perché la caratteristica del transessuale brasiliano è proprio quella di avere un gran bel sedere. Poi hanno cominciato le attrici.

Si fanno le applicazioni di silicone anche al petto, ma per il petto, come per il viso, è molto pericoloso. A qualche trans brasiliano che ha fatto l’applicazione sulla faccia, il viso s’è fatto come un pallone, si è deformato. Ci sono due tipi di applicazioni possibili. Il primo è con l’anestesia, il secondo a sangue freddo. Questo a sangue freddo è quello che preferisce fare il bombador o la bombadeira: la persona che fa l’applicazione. Ci sono stati tanti morti per l’applicazione del silicone, erano sempre trans che esageravano. L’applicazione senza anestesia è molto dolorosa. Ma c’è meno rischio perché se l’ago prende una vena o un vaso del polmone, si sente subito e arriva il dolore. Per me ci sono volute due ore e venti minuti per l’applicazione. Sembrava che stessi partorendo. Mi volevo alzare dal letto perché non riuscivo a sopportare tutto quel dolore, ma sapevo che era il dolore della bellezza e non mi mossi. Per tre volte ho fatto l’applicazione a sangue freddo. Oggi come oggi penso che non riuscirei a resistere di nuovo a tutta quella sofferenza. Io ho fatto l’applicazione solo al sedere. L’ho fatta con un transessuale brasiliano che abita a Rio de Janeiro. Si era trasferito a Parigi, ma, quando fu espulso tornò in Brasile. È un trans molto famoso nella applicazione del silicone. Severina, questo è il suo nome. Ha costruito i corpi di molti transessuali, centinaia di corpi. È uno dei primi trans brasiliani. Oggi ha cinquanta o cinquantacinque anni di età. Il petto conviene farlo fare a un dottore, con le protesi. I seni fatti crescere con gli ormoni sono diversi da quelli fatti con le protesi. Con i primi devi stare sempre sotto ormoni perché se ti fermi per un certo tempo spariscono. Io, comunque, devo stare sempre sotto ormoni lo stesso perché mi si è rotta una protesi e, per non fare vedere un difetto così vistoso (un seno più grande dell’altro), sono obbligata a prendere gli ormoni fino a quando non potrò rifare l’operazione.

 

Ci sono specialisti che fanno le applicazioni di silicone con l’anestesia e ci sono i bombadores che non sono dottori e fanno le applicazioni a casa. Puoi parlarmi di queste persone? Sono tutti transessuali come Severina?

Quelli che fanno l’applicazione di silicone a casa non sono legali. Ma ogni paese ha le sue regole e in Brasile la polizia, benché sappia, fa finta di niente. Il problema è che questi bombadores – che generalmente sono dei transessuali – dovrebbero avere un po’ più di attenzione e responsabilità poiché con le applicazioni fatte in casa il rischio di morte è sempre molto alto. Invece, può accadere che uno assiste ad una applicazione di silicone. Poi si compra il materiale necessario e mette in giro la voce che anche lui sa fare le applicazioni. A questo punto il primo cliente che gli capita sotto deve ritenersi fortunato se non gli succeda niente, perché se la siringa prende un vaso che va al cuore o al polmone ci resta. Tanti transessuali sono morti in questo modo, a San Paolo e a Rio.

Le cliniche legali adesso sono cinque o sei. Anni fa erano due o tre in tutto il Brasile. Ci andavano le donne e gli artisti. Solo adesso ci va qualche trans che si sta trasformando.

Ecco, il novantacinque per cento dei corpi fatti col silicone sono illegali, fatti dai bombadores. Questi sono quasi tutti transessuali, sono i transessuali più responsabili, non persone qualunque. Severina, per esempio, è un transessuale che non ha mai avuto problemi con le applicazioni. Io le ho fatte sempre con lei. Solo l’ultima volta sono stata male. Abitavo a San Paolo e Severina stava a Rio. Avevo fatto l’applicazione e non avrei dovuto fare il viaggio di ritorno nello stesso giorno. Ma lo feci lo stesso, un viaggio lungo come da Milano a Roma. Quando arrivai a San Paolo mi usciva un po’ di silicone dal fianco destro. Nel millenovecentottantasei, volevo fare i seni con il silicone liquido ma Severina mi disse che era pericoloso e mi consigliò di farmi applicare le protesi da un dottore.

 

Conosci qualche storia di bombadores di silicone?

Ne conosco tante. Oltre a Severina ce ne sono altre molto brave. Jelma e Fiorella, ad esempio, sono due trans e stanno a Rio. Eunice, invece, è una donna e sta a San Paolo. João è un uomo e sta anche lui a San Paolo. Marli, è un trans e sta a Recife, adesso si è operata e abita in qualche paesino qui in Italia. Si è sposata. L’ultima volta l’ho vista a Viareggio nel marzo dell’ottantanove. Manuela, è trans e sta a San Paolo. Daniela stava nella città di Curitiba, capitale del Paraná. Adesso è morta ma è stata la prima trans a fare le applicazioni di silicone in Brasile. È morta in un incidente d’auto. Sono tutti diventati bombadores imparando dagli altri. Poi c’è Rosana Staise, è transessuale e vive a Belo Horizonte, la capitale dello stato di Minas Gerais. Neuza è un’altra, una donna che vive a Campinas, vicino San Paolo.

I bombadores ci sono da circa tredici anni. Adesso però sono aumentati e ce ne sono di nuovi. Scuole per diventare bombador non ce ne sono, bisogna imparare da qualcuno. Quelli famosi sono dieci in tutto il Brasile: due donne, un uomo e sette transessuali. Le cliniche più famose sono due: quella a Rio, del dottore Vinicius, dove ho fatto le protesi dei seni; e quella a San Paolo, la clinica del dottor Jran, la più conosciuta. Adesso forse ce ne saranno anche altre.

Quasi tutti i trans vanno dal bombador. Alle cliniche vanno per fare il petto oppure se hanno problemi con il silicone. Il fatto è che dal chirurgo non puoi chiedere la quantità di silicone che desideri: è lui che decide. Invece, con il bombador chi decide è il trans. Dal dottore vanno sempre le donne, perché le donne hanno paura di esagerare. I trans no, i trans decidono prima di andare dal dottore. Decidono loro, ecco la storia.

 

Mi racconti la storia del tuo incontro con Severina?

Ci siamo conosciuti nel settembre del millenovecentottantacinque. Venivo da Salvador, Bahia. E andai ad abitare in un appartamento che era di fronte al suo, nella stessa via. Già a Bahia sentivo dire che Severina era la migliore. Erano tre giorni che stavo a Rio quando, passando vicino a cinque o sei transessuali che parlavano con una certa signora, mi sono fermata e a due di loro che avevo già visto ho chiesto se conoscevano Severina la bombadeira. Mi rispose la signora: Sono io. Quella signora era un trans, era lei, proprio Severina. Mi chiese se mi volevo bombare. Le risposi che avevo paura. E lei: Come paura? Se vuoi essere donna c’è da sopportare il dolore, solo così diventi donna. Io comunque avevo già l’intenzione di mettere il silicone per avere un po’ di fianchi, come hanno le donne. Poi mi ha chiesto di dove ero e io: Di Campina Grande, Paraiba. Fu una sorpresa, anche lei venti anni prima era partita da Campina Grande per venire a Rio. Eravamo paesane. Mi chiese perché non ero venuta subito a Rio, le raccontai la mia vita. Lei la sua. Mi disse che se volevo potevo fare l’applicazione subito e pagarla anche dopo. Quando andai a casa sua vidi tanti quadri, tante fotografie, tutte di famosi transessuali che erano passati per le sue mani. I loro corpi erano bellissimi. Tutti fatti con il silicone, belli da impazzire. Lavorai due settimane – battevo, naturalmente – per fare i soldi. Poi vidi il corpo di un trans. E allora chiesi a Severina di farmi uguale. Era Perla, un transessuale dai capelli scuri e con la pelle mora come la mia.

Quando nell’ottantotto rividi Perla a Madrid, tanta gente mi confondeva con lei. Mi dispiace che sia morta, in Spagna. Overdose di eroina. Suicidio. Si era iniettata cinque grammi poco dopo aver saputo di essere in Aids conclamato. Eravamo una la copia dell’altra, io e Perla. Comunque, per arrivare ad avere un corpo come quello di Perla c’è stato bisogno di una seconda applicazione. Perla & Princesa – Carlos & Fernando.

Severina è uno dei primi trans, voglio dire che quando io sono nata, lei era già trans. Viveva di prostituzione e nel millenovecentottanta andò a Parigi. Ma non ebbe fortuna e fu espulsa. Nell’ottantuno andò a Curitiba per fare le applicazioni con Daniela. Al ritorno portò con sé una certa quantità di silicone. L’applicazione se la fece da sola, dopodiché divenne una famosa bombadeira. Severina ha fatto anche corpi di alcune donne. Aveva un po’ di pratica perché nella sua vita, quando era ancora gay, quando viveva con la famiglia, faceva l’infermiere. Sapeva dove mettere la siringa di silicone. Oggi è una persona molto esperta. L’ho vista anche qui in Italia, nell’ottantotto, a Milano, era venuta per fare l’applicazione ad alcuni trans.

Quando si fa l’applicazione, sei ore prima e sei ore dopo non si può mangiare. Né si possono bere alcolici come vino o whisky, niente.

Il giorno stabilito, Severina mi fece entrare in una stanza con un letto di ferro e un materasso duro. Avrei potuto portare qualcuno per vedere, ma chi aveva coraggio di venire? Una collega che lo ebbe, quando mi vide con tutti gli aghi infilati nella pelle, strillò così tanto che aumentò la mia paura. Comunque, la bombadeira di solito non vuole estranei mentre fa l’applicazione. Finita l’operazione si deve stare a letto per tre o quattro giorni, si può camminare per non più cinque o dieci minuti di seguito.

 

Daniela, mi dici, è stato il primo transessuale che ha usato il silicone in Brasile, nell’ottantuno. Mi parli un po’ di lei?

Daniela è stato un transessuale che ha avuto successo non con la sua bellezza ma con il silicone. Nel millenovecentottanta andò a Parigi dove si fece applicare le protesi al petto da un chirurgo plastico. E, sempre da Parigi, ritornò con un bel po’ di soldi. Come transessuale era perfetto. Dopo il viaggio in Francia non ebbe più bisogno di prostituirsi, iniziò a fare le applicazioni di silicone ai trans e anche alle donne. È lei che ha fatto il corpo del trans più bello del Brasile, Roberta Close. Roberta è un artista della televisione brasiliana. È operata e vive a Rio; è conosciuta da tanti: francesi, svizzeri e italiani.

Daniela ha fatto altri modelli, per esempio Tuca Rubirosa che oggi abita a Ginevra. Il corpo di Tuca è splendido. Jarley, è un altro corpo modellato da Daniela. Anche il corpo del trans più famoso di San Paolo, Telma Lipe, l’ha fatto lei con le sue mani.

Oggi questi trans che hanno avuto il corpo bombato da Daniela sono i più belli di tutti. Daniela era capace di trasformare qualsiasi corpo maschile in femminile. A renderli perfetti come quelli delle donne. Anche Daniela era un’artista, come Roberta Close. Entrambe, per arrivare dove sono arrivate, sono partite dalla prostituzione. Forse la prostituzione non faceva per loro, ma se dalla vita vuoi aver tanto devi fare la puttana, così si dice.

 

Una volta applicato, il silicone si può togliere? Conosci storie di transessuali che hanno desiderato tornare indietro?

Sì che si può togliere, ma è un intervento molto delicato perché una volta applicato al viso, al petto, ai fianchi o in qualsiasi altra parte del corpo, il silicone arriva alla carne, in profondità. Così per togliere questo silicone che ormai è penetrato nella carne, si deve andare da un bravo chirurgo plastico. Il medico deve usare strumenti molto sofisticati, deve aprire, delicatamente, muscolo per muscolo per separare il silicone dalla carne. Inoltre, per togliere il silicone, si deve fare un’anestesia perfetta.

Fino ad oggi non ho visto nessun trans che volesse tornare indietro. Ma ho conosciuto due trans brasiliani che, a causa di deformazioni, hanno dovuto togliere una parte di silicone. Uno di questi aveva viso e corpo molto belli ma aveva esagerato ai fianchi ed è stato obbligato a toglierne un po’, però poi gli è rimasta la cicatrice. L’altro si è tolto il silicone dal viso. Ne aveva messo troppo. Ma il difetto gli è rimasto. Non ho mai visto nessuno togliere il silicone per tornare come prima.

 

Parliamo dei clienti. Tu ne hai avuti centinaia, sia in Brasile che in Europa e nel tuo racconto scrivi che i clienti italiani, – mi riferisco alle tue esperienze di Milano e Roma – sono più educati, meno violenti di quelli di Rio o di San Paolo, ma anche più viziosi. Puoi accennarmi le differenze? Cosa vuol dire più viziosi?

Ai clienti italiani, o meglio, alla maggioranza dei clienti italiani, all’ottanta per cento, piace vedere anche la parte maschile dei transessuali, non solo quella femminile. Faccio un esempio. Quando un cliente viene da me e paga in anticipo, dentro di me, quasi spontaneamente, penso che sta pagando perché vuole il mio culo e basta. Ecco, in Italia la maggior parte delle volte non è così.

Ci sono clienti che sì, vogliono il sedere, ma insistono anche perché mi masturbi. Sono clienti che insistono per vedere e toccare il mio pisello. A me è successo parecchie volte di avere clienti che pagavano solo se gli facevo vedere che mi masturbavo. Che arrivassi o no all’orgasmo non era importante, per loro importante era vedere quello spettacolo. Tanti di questi clienti non sono dei froci, sono solo dei tipi che con noi sfogano la loro omosessualità latente.

Prima di finire in carcere, a Roma, avevo un cliente fisso che mi pagava duecentomila lire a prestazione. In macchina. Lui non mi toccava davanti, prendeva il mio sedere. Però prima dovevo masturbarmi davanti a lui. La prima volta che me lo chiese non capii, e gli dissi: Non mi piace fare da maschio per te. Ma lui rispose: No, io desidero solo vedere che ti viene duro e ti masturbi. Insistette e siccome c’erano duecentomila lire… Insomma mi sono concentrata su quello che voleva, anche se non era il mio piacere, e l’ho fatto. Mi sentivo donna e uomo nello stesso tempo. Era incluso nel mio lavoro e dovevo farlo, mi servivano i soldi.

Ci sono altri clienti a cui piace farsi i transessuali, ma prima vogliono essere fatti. Così come ci sono casi in cui i clienti, uomini con barba e baffi, vogliono fare i bocchini ai trans. Io non posso nascondere, non posso negare che ho fatto e provato tutto questo. Non mi vergogno a dire che per tante volte ho dato soddisfazione a molti clienti facendogli esplorare la mia parte maschile. Ho provato tutto, anche quello che non mi andava a genio. Ma ero spinta a farlo dai soldi! E voglio dire che l’ho fatto solo con i maschi. Con altri trans, così come con le donne, nemmeno con la minaccia di morte riuscirebbero a farmi fare del sesso!

Un altro vizio dei clienti che mi è capitato diverse volte è quello di fare dei 69. Certe volte, con alcuni clienti, ad essere sincera, mi piaceva. Ricordo un signore ben vestito, fisicamente pulito e di buona posizione finanziaria, educato. Mi diceva: Io faccio solo questo, il 69, e basta. A me piace scopare e non essere scopato. Così diceva.

Sono questi i vizi più frequenti degli italiani. Non che a Rio o a San Paolo non ci siano clienti che chiedono questo tipo di prestazioni. Ci sono, però sono una minoranza. Qui, in Italia, invece, sono la maggioranza. Comunque, io giudico omosessuali quei clienti che fanno bocchini o si fanno penetrare dai trans. Per quanto riguarda gli altri, io non li critico. A loro piace lo spettacolo. Per come la penso io, questi altri, non sono gay.

Un’altra differenza tra i clienti europei e quelli brasiliani è che qui pagano prima, in anticipo. In Brasile, invece, pagano dopo.

Ecco, sono questi i vizi più particolari e più frequenti dei clienti romani e milanesi, vizi diversi da quelli dei clienti di Rio e San Paolo.

 

Com’è organizzata l’emigrazione transessuale?

Non c’è nessuna organizzazione per questa emigrazione. Può accadere, invece, che quando un transessuale viene espulso dall’Europa, arrivato in Brasile, non ha i soldi per farci ritorno. Allora, spesso, si rivolge ad un altro trans che ha già sistemato la sua vita. Tra loro fanno un accordo, e quest’ultimo gli paga il biglietto. Il trans che ha finanziato, qualche volta, viene lui stesso in Europa a riscuotere il credito. Altre volte, invece, aspetta il suo debitore al ritorno. Una specie di strozzinaggio. Alcuni di questi finanziatori sono trans prepotenti, o che lavorano in complicità con la polizia carioca o paulista. Questi aspettano al ritorno anche chi ha già pagato il debito e gli chiedono altri soldi per un qualche motivo, per esempio un ritardo nel pagamento. Capita allora che chi deve pagare si ribella. Comunque la maggioranza dei transessuali brasiliani viene in Europa per proprio conto, come ho fatto io. Si va ad una agenzia, si chiede anche l’indirizzo di un albergo o una pensione e via. La cosa che si soffre è la lingua. All’inizio la situazione è dura, ma generalmente c’è sempre qualcuno che conosce il portoghese e il più delle volte, alla destinazione, si incontrano altri trans…

 

Quali percorsi usano i transessuali brasiliani per entrare clandestinamente in Italia?

Spesso entrano dalla Francia, attraverso la frontiera di Ventimiglia. Oppure dalla Svizzera (Chiasso e Lugano). Attraversano queste frontiere nascosti dentro camion con la complicità dei camionisti. Oppure facendo il percorso delle montagne dall’Austria o dalla Jugoslavia, di notte, a piedi. Io per esempio ho passato due volte la frontiera di Ventimiglia nascosta dentro un camion. Un’altra volta l’ho passata tranquillamente seduta in una macchina con un signore che conosceva bene la polizia di frontiera. Ogni tanto può capitare che si entri con documenti falsi. Ci sono trans che sono passati, fregando la polizia, con passaporti intestati a donne. Tutti i problemi che oggi incontrano i trans per entrare in Italia sono successivi ai casini che sono accaduti dopo il loro arrivo in massa. I primi trans che arrivarono in Italia, infatti, negli anni ottantacinque – ottantasei, arrivavano tranquillamente come turisti agli aeroporti di Malpensa o di Fiumicino. Oppure in treno. Nell’ottantasei sono sbarcati ventisei transessuali al porto di Genova. Erano partiti in nave da Barcellona, ebbero tutti il visto d’ingresso come turisti. Oggi nemmeno con dieci milioni in tasca te lo rilasciano. Ti fanno entrare solo se hai un lavoro, o il domicilio presso una famiglia. Oggi ci sono più controlli.

Quando un trans brasiliano arriva in Europa a chi si rivolge per organizzare la sua vita?

Non si rivolge a nessuno. La prima cosa che fa è cercare un albergo o una pensione. Poi, chiede al padrone della pensione, oppure ad un altro transessuale che già si trova lì, il nome delle vie dove ci si prostituisce. Oppure, chiede ad un tassista di portarlo dove lui sicuramente sa. Altre volte, semplicemente, si comincia a camminare, c’è sempre qualcuno che si ferma e che può darti indicazioni. Come ho già detto, la cosa più tosta è la lingua. Anche se per un transessuale straniero non è poi così difficile: su certe cose ci si mette poco a capirsi. Bastano i gesti, per non dire che i clienti… imparano subito il portoghese.

 

Chi sono i trans che in Europa si fanno pagare il pedaggio per il marciapiede?

Sono i primi transessuali arrivati in Europa quelli che fanno prepotenze sugli altri trans. Si fanno aiutare dai maschi, oppure si impongono con la protezione della polizia. Sì, perché alcuni vecchi trans lavoravano per la polizia. Questo è successo in Francia. In Italia chi faceva prepotenze erano perlopiù uomini italiani e non i transessuali brasiliani. A Parigi c’era un transessuale di nome Elisa. Era una delle prime arrivate. Si era fatta conoscere dagli arabi, e collaborava con la polizia. Lei comandava una via famosa, a Pigalle. Ci lavoravano venti, venticinque transessuali ogni sera. Elisa li comandava e controllava. Faceva pagare il pedaggio e metteva le multe. Gli altri trans ci andavano comunque perché il posto rendeva molti soldi. Ma Elisa non lavorava da sola. Veniva sempre con una mercedes, accompagnata da tre o quattro arabi. I trans dovevano pagare quanto decideva lei, se no li cacciava. Lei già sapeva quando un trans partiva dal Brasile e del suo arrivo a Parigi. Se questo non accettava le sue proposte lo faceva espellere. Immediatamente. Elisa fu uccisa brutalmente sulla porta del suo appartamento da un altro transessuale brasiliano che non sopportava più i suoi soprusi. Questa è una storia accaduta circa dodici anni fa.

Al Bois de Boulogne non comandava una sola bicha ma erano cinque o sei vecchi transessuali quelli che pretendevano il pedaggio. In ogni caso erano meno pericolosi di Elisa.

Sono sempre i più vecchi che fanno le prepotenze. In Italia però, nella maggioranza dei casi, non lo hanno potuto fare perché già lo facevano i maschi italiani. Due trans che hanno tentato di fare in Italia quello che facevano in Francia sono subito finiti in carcere. Oggi credo che storie del genere ce ne siano di meno.

 

A Madrid ti sei scontrata con dei trans spagnoli perché avevi sbagliato marciapiede. Mi puoi raccontare come sono i rapporti tra trans brasiliani e italiani? C’è conflittualità?

Sì. Il motivo è che ai clienti europei, essendo assai viziosi, piace che il trans dia spettacolo. Gli europei vedono che i brasiliani si mostrano di più, fanno più spettacolo dei trans milanesi o romani. Eppoi, i trans brasiliani accontentano il cliente in tutti i modi, cosa che a volte i trans italiani non fanno. Molti clienti dicono che vengono con noi perché siamo più effeminati dei trans italiani e siamo più divertenti. Per questo i trans europei perdono i loro clienti.

I clienti italiani sono davvero viziosi. A loro piace vedere sempre facce nuove. Un cliente che passa tutte le settimane e vede sempre la stessa faccia se ne va con la prima novità che arriva. E quella novità siamo noi. Ci sono però anche casi di clienti fissi. Mi ricordo che a Milano avevo un cliente che usciva spesso con me e che aveva paura della delinquenza degli altri trans. Allora capita che un cliente che simpatizza con un trans rimane con lui e basta.

 

C’è differenza tra battere il marciapiede a Rio o San Paolo e Milano o Roma?

Sì, c’è differenza. Una grandissima differenza. Sui marciapiedi di Roma o Milano un transessuale che lavora onestamente, senza aggredire i clienti e senza farsi coinvolgere nel traffico di droga, non viene mai ucciso o massacrato per la strada come, invece, succede a Rio e San Paolo. In Brasile, per essere uccisi basta un’antipatia, basta non volere fare l’amore gratis con certi individui. Altre volte si pagano con la vita gli errori fatti da altri trans. Lì c’è violenza e discriminazione.

 

Puoi raccontarmi una notte di prostituzione a Milano e Roma. I luoghi, gli episodi, il clima?

A Milano, in via Melchiorre Gioia, vicino alla stazione Garibaldi, sembrava una passerella, una sfilata. D’estate durava dalle nove di sera alle cinque del mattino. Eravamo tutte quasi nude. Io lavoravo con minigonna e tacchi a spillo. D’inverno, invece, lavoravo con una pelliccia fino alle ginocchia, sotto avevo una mutandina e nient’altro. Molti trans, d’inverno, si toglievano anche quella e si coprivano solo con la pelliccia. Lì lo spogliarello doveva esserci per forza perché la concorrenza era davvero forte. Si arrivava al punto che tutti facevamo lo spogliarello. Dovevi farlo se volevi lavorare. Doveva farlo anche chi era seria. Per i milanesi soprattutto, che sono molto più viziosi dei romani.

La quotidianità era che quando un trans batteva quindici macchine in una notte cominciavano i battibecchi. L’invidia. Qualcuno iniziava a dire che quella faceva gli sconti; che se ne doveva andare via. Chi aveva il coraggio mandava affanculo le invidiose e rimaneva. Chi era diverso andava via. Poi c’erano gli insulti coi clienti. Poi cominciavano le discussioni su chi aveva lavorato di più, su chi aveva raggiunto diecimila dollari in due o tre mesi, chi quindici, chi ventimila; su chi veniva espulsa, su chi si drogava. Si parlava dei clienti abituali della via, di quelli che pagavano bene, di quelli che si prendevano una serata per sniffare cocaina con i trans. Ci si spogliava per vedere chi, tra di noi, aveva il corpo più bello, chi aveva i capelli più lunghi, il petto più bello. Su chi aveva fatto la plastica, su chi aveva il ragazzo e chi no. Erano questi gli argomenti.

A Roma però c’erano meno casini che a Milano. All’Eur si lavorava bene. Via Flaminia era quella in cui c’era più casino. Io non ci andavo mai. La prima notte che ho lavorato a Roma sono andata sulla Cristoforo Colombo, un marciapiede su via Padre Semeria, vicino alla Fiera di Roma. Era il novembre dell’ottantotto. Niente battibecchi, niente spogliarelli, niente casini. La polizia non li permetteva. E comunque non ce n’era bisogno perché ai clienti romani piacciono le persone più serie, così almeno ho capito col mio lavoro tra Roma e Milano. A Roma non ho mai avuto bisogno di spogliarmi per strada come a Milano. Eppure battevo i soldi meglio che a Milano. In via Flaminia ci andavo soltanto quando dovevo parlare con qualche bicha. Io preferivo battere l’Eur e il lungotevere.

A Milano, in via Melchiorre Gioia, c’era sempre spettacolo grande. Le notti d’estate, il cielo splendido, la via tutta illuminata. La gente era in vacanza ma le macchine, in via Melchiorre Gioia non mancavano mai. Dalla sera al mattino. Tutti i trans lavoravano. Io facevo circa dieci macchine a notte. Cinquecentomila lire entravano di sicuro in tasca. Allora non parlavo quasi niente d’italiano. In macchina, lui o loro, mi facevano vedere i monumenti di Milano, piazza Duomo, porta Venezia, corso Buenos Aires ecc. ecc. Ogni tanto, qualche trans brasiliano che mi conosceva dal Brasile, mi portava in giro. Ancora non conoscevo l’eroina (sniffavo ogni tanto) e forse non ero neanche sieropositiva. Ero contenta di quello che facevo. Mi sentivo orgogliosa di essere una prostituta. Da me venivano persone che, anche se ero straniera e non sapevo dialogare, affittavano il mio corpo. Mi usavano, ma capivano che quel mestiere era il mio modo di vivere, di sopravvivere. Però in mezzo a tutta quella fantasia c’era sempre un’angoscia dentro il mio cuore. Per tutta la notte ero visitata da tanti ma poi, all’improvviso, dovevo riprendere la strada dell’albergo per rimanerci chiusa tutto il giorno. Allora mi sentivo giù. Una persona buttata via, che non faceva parte della società. Dovevo passare la giornata insieme agli altri trans, nell’albergo. Mi dovevo trattenere nella stanza fino a sera, quando ero di nuovo pronta per via Melchiorre Gioia, per via Abruzzi – per lo spettacolo. A via Abruzzi andavo dopo le due di notte, dopo che le donne lasciavano quel marciapiede. Tutti mi conoscevano con il nome d’arte di Princesa. Qualche milanese rideva e mi chiedeva: Perché ti chiami Princesa? È un nome come un altro, José, un nome qualsiasi – rispondevo.

 

 

 

 

 

 

Glossario

Baraúna: Grande albero della famiglia delle Leguminose (Melanoxylon brauna), di legno durissimo adatto per le costruzioni.

Bicha: Sanguisuga, mignatta, lombrico. Termine comunemente usato per definire gli omosessuali.

Bombadeira: Praticona alla quale si rivolgono i transessuali per modificare il corpo con iniezioni di silicone.

Bumba-meu-boi: Rappresentazione drammatica organizzata in corteo dove i personaggi principali sono il bue, il cavallo marino, il medico.

Burití: Specie di palma (Mauritia vinifera) molto comune dal Pará a San Paolo. Dai suoi frutti si ricavano dolci e liquori.

Caatinga: Zona arida del Nordest con vegetazione composta di alberi che durante i periodi di siccità perdono le foglie. Ricca di cactacee, bromeliacee e arbusti spinosi. Scenario fantastico e drammatico di innumerevoli opere della letteratura brasiliana.

Caboclo: Indigeno brasiliano dalla pelle color bronzo; meticcio di bianco con indio; contadino povero delle regioni dell’interno.

Cajarana: Albero della famiglia delle Anacardiacee (Spondias dulcis) chiamato anche cajá-manga.

Cajueiro: Albero della famiglia delle Anacardiacee (Anacordium occidentalis).

Churrascaria: Ristorante dove si serve il churrasco.

Churrasco: Carne arrostita alla brace.

Curumbatá: Pesce di acqua dolce della famiglia degli Eritrinidi (Prochilodus reticulatus).

Dendê: Palma di origine africana (Elaeis guineensis), da cui si estrae un olio molto usato nel nord per friggere e condire.

Favela: Insieme di abitazioni poveramente costruite, in genere sulle colline o ai margini delle città; spesso prive delle più elementari strutture igeniche.

Fazenda: Grande proprietà rurale con coltivazioni e allevamenti.

Forró: Ballo popolare detto anche arrasta-pé (trascina piedi).

Frevo: Danza di origine nera dal ritmo assai vivace presente soprattutto durante il carnevale.

Garimpos: Giacimenti d’oro e diamanti.

Garoa: Condizione atmosferica che si ha quando la nebbia si scioglie in goccioline minutissine, lente e fitte. Molto frequente nella regione di San Paolo.

Goiaba (dolce di): Dolce fatto con il frutto della goiabeira.

guaranà: Bevanda refrigerante dolce e gassata prodotta in origine con i semi del guaranà (Paullinia cupana).

Imbu: Frutto dell’imbuzeiro, albero della famiglia delle Anacardiacee (Spondias tuberosa).

Jurubeba (liquore di): Vino liquoroso ricavato dalla jurubeba (Solanun paniculatum), pianta della famiglia delle Solanacee.

Maconha: Canapa indiana (Cannabis indica). Le foglie e i fiori sono usati come stupefacenti.

Mãe-de-santo: Sacerdotessa della macumba, rito religioso di origine africana con influenze cristiane.

Mandioca: Pianta delle Euforbiacee (Manihot utilissima) e tubercolo commestibile della stessa pianta.

Maricão: Effeminato, finocchio.

Maricas: V. maricão.

Marmeleiro: Albero della famiglia delle Rosacee (Pyrus cydonia) i cui rami, flessibili e resistenti, sono spesso usati come fruste.

Meninos de rua: Milioni di bambini che a causa della gravissima crisi economica sopravvivono di espedienti nelle strade delle grandi metropoli brasiliane.

Orixás: Divinità della mitologia africana che si ritrovano nei riti religiosi della macumba e del candomblé brasiliani.

Pitomba: Frutto della pitombira (Sapinadus esculentus).

Traíra: Pesce di fiume della famiglia degli Eritrinidi (Hoplias malabaricus).

Urutu: Nome di varie specie di serpenti velenosi della famiglia dei Crotalidi.

Veado: Cervo. Termine volgare brasiliano per definire il pederasta passivo.

 

 

 

Sensibili alle foglie, Prima edizione 1994

 

© Edizioni Sensibili alle foglie Società Cooperativa

 

Tel e fax: 0173742417 – 0774311618

E-mail: sensibiliallefoglie@tiscali.it

http://www.sensibiliallefoglie.it

 

Questo libro racconta la vita e gli incontri di Fernanda Farias de Albuqueque, ovvero Princesa, Principessa. Una storia di vita transessuale. L’esperienza di un corpo in dissonanza, in transito da un’identità sessuale all’altra, bloccato sul confine dell’ambiguità. Né uomo né donna: una fascinazione antica, uno spavento tra le gambe. Il racconto di Princesa prende avvio da lontano: dal Nord-Est del Brasile, al confine con la caatinga, un tempo deserto di pazzi, santi e banditi. E da un corpo maschile, Fernandinho, che mille José di campagna fanno femmina per il loro piacere.

Princesa è anche la narrazione di una metamorfosi e di una fuga. La prima si snoda tra la chimica del silicone e la chirurgia plastica delle bombadeire brasiliane, costruttrici clandestine di corpi “illegali” e transessuali. La seconda, catastrofica, rovina verso un centro vuoto: le grandi città scassate del Brasile e dell’Europa. Fuga paradossale, in ogni caso. Perché lei, l’anomalia, per sottrassi alla vista si rende più che mai visibile e, nel nascondiglio stereotipato di un corpo quasi femminile, letteralmente costruito come-tu-mi-vuoi, diventa trasparente. A volerla di notte, comunque, salvo poi disprezzarla di giorno, sono un fiume di José brasiliani, spagnoli, francesi, italiani; quell’onda crescente che sui marciapiedi di Rio, di Roma o di Milano cerca la prostituzione transessuale per placarsi, col primo sole, in effimere certezze.

La certezza vive semplice – dice la protagonista – gli uomini da una parte, le donne dall’altra. E io?