di Silvia Campagnola  

  1. Princesa e il panorama queer. La necessità del connubio tra teoria e pratica

Negli ultimi vent’anni, in ambito accademico, si è riflettuto molto sui cambiamenti, sulle ambiguità della società contemporanea e sulla necessità di sviluppare nuovi modelli di soggettività non più unitari e monolitici, ma che al contrario rispecchino adeguatamente la complessità e la frammentarietà attuale. La filosofa femminista Rosi Braidotti afferma: 

abbiamo bisogno di schemi di pensiero e di figurazioni che ci permettano di spiegare in termini efficaci e positivi i cambiamenti e le trasformazioni ora in atto. […] La visione unitaria del soggetto non può essere un antidoto efficace ai processi di frammentazione […] che caratterizzano la nostra era. (2006, 42) 

Di fondamentale importanza in questa attività di decostruzione è stato l’apporto del femminismo: il soggetto nomade, il queer, il cyborg, la mestiza e la lesbica sono modelli «glocali» (Stanford Friedman 2005, 281), che valorizzano la necessità di partire dalla propria locazione senza però dimenticare la visione globale in direzione di una propria creolizzazione e di un divenire minori caratterizzati dall’abbandono di modalità dicotomiche di pensiero. Le nuove soggettività sono dunque fluide, pluristratificate, spesso a cavallo tra più culture e realtà differenti, sono, insomma, in divenire e in transito, dove il divenire significa «apertura – potere trasformativo di tutte le minoranze sfruttate, marginalizzate, oppresse. […] imparare a reinventare se stessi e i propri desideri» (Braidotti 2002, 104). Come ben descrive Braidotti, il divenire minori rappresenta una trasformazione della propria modalità di pensiero, uno staccarsi dalle abitudini e un allontanarsi dalle modalità fallocentriche e patriarcali di pensiero. Questo processo deve coinvolgere in diversi gradi sia le minoranze sia le maggioranze verso l’obiettivo finale di distruzione della modalità dicotomica servo/padrone e dell’identità monolitica. Il termine usato da Anzaldúa, nepantla, che proviene dalla lingua náhuatl e che significa tierra entre medio, (Zaccaria 2004, 46), ben riassume il concetto del divenire espresso da Braidotti, ovvero quello «stato in­between, [in] quel terreno incerto che attraversiamo quando ci spostiamo da un luogo ad un altro, quando passiamo da una classe, una razza o un genere ad un altro, o quando viaggiamo dall’identità del presente ad una nuova» (Anzaldúa 1993, 177). L’essere in questa condizione, lungi dal rappresentare uno svantaggio, anche se è una situazione radicale e di conseguenza dolorosa, costituisce un valido punto di partenza e una marcia in più per decostruire la realtà che ci circonda. 

È proprio in questo stato sconvolgente di nepantla[1] che si trova Fernanda Farias de Albuquerque durante la sua vita e quando si accinge a scrivere di essa in carcere assieme a Maurizio Jannelli con l’aiuto di Giovanni Tamponi, un pastore sardo. Princesa è la storia di molteplici transiti tra paesi, contesti, identità, coscienze, generi e corpi. In quest’articolo è mia intenzione “far dialogare” questo memoir, soprattutto con le riflessioni di Judith Butler e le teorie queer che si sono ampiamente sviluppate a partire dagli anni Novanta principalmente in ambito accademico statunitense, per poter rilevare eventuali punti di continuità e disconnessioni. È mio interesse interpretare questo personal writing da un’angolatura queer per passare dalla teoria alla pratica e per affiancare le teorie ad un testo autobiografico. Il cambio di genere di Farias mina l’eteronormatività e «mette in rilievo lo status totalmente costruito del cosiddetto originale eterosessuale» (Butler 1990, 41) o costituisce solamente una semplice riconferma di essa? Insomma, Princesa può essere considerato un testo out-law

Nel famoso e citato testo La disfatta del genere Judith Butler afferma che transessuali, lesbiche, gay e transgender possono agire in modo politico perché «ci mostrano anche come possono essere messe in discussione le norme che governano le nozioni correnti di realtà e come sia possibile creare nuovi modi in cui la realtà può darsi» (2004, 55). In questo testo, così come in Scambi di genere, Butler ribadisce il concetto secondo il quale il genere sarebbe il mezzo discorsivo tramite il quale il sesso verrebbe definito antecedente la cultura (1990, 11). Secondo Butler, inoltre, la norma eterosessuale imporrebbe modelli basati sulla coerenza tra sesso, genere, desiderio e pratica sessuale e sarebbe quindi fortemente escludente perché determinerebbe ciò che è abietto e normale. Butler, al contrario, afferma che sesso e identità sono costrutti culturali come il genere; anche il sesso stesso è una categoria e 

quando lo status costruito del genere viene teorizzato come del tutto indipendente dal sesso, il genere stesso diviene un artificio fluttuante, con la conseguenza che uomo e maschio possono designare tanto un corpo femminile quanto uno maschile, e donna e femmina tanto un corpo maschile quanto uno femminile. (ivi, 10) 

Conseguentemente chi esce dal binario dell’eterosessualità, grazie al suo comportamento e alla trasgressione della norma, può minare e sovvertire il sistema e far dunque riflettere sulla costruttività del concetto di genere e sesso. 

Nell’ambito degli studi queer è ormai diffusa la tendenza a differenziare i termini transgender e transessuale. Il primo ha una connotazione generalmente sovversiva, definisce non necessariamente un’operazione chirurgica, designa piuttosto un atteggiamento mentale, fluido, al di là della polarità del genere. Arfini, parlando della comunità transgender, afferma che 

Esistono persone trans che non si identificano né come donne né come uomini in maniera definitiva, configurando percorsi di transizione che non giungono mai a un termine […]. La mascolinità viene incarnata da corpi femminili, la femminilità da corpi maschili; a volte le modificazioni sono reversibili, altre volte no. (2007, 72)

Il termine transessuale richiama invece un atteggiamento conservatore nei confronti della dicotomia del genere; come nota Flavia Monceri i transessuali, secondo l’opinione comune potrebbero riprodurre, più che trasgredire, norme rigide di genere e stereotipi femminili perché «gli individui intersessuali e transessuali, infatti, sono spesso alla ricerca di un insieme di strumenti per confermare quell’identità sessuale/di genere stabile che ritengono di avere» (2010, 13). La stessa Judith Butler nell’opera Corpi che contano (1993) afferma che non sempre il cambio di genere può essere considerato sovversivo. La teorica riprende il concetto del drag, ovvero il vestirsi con abiti del sesso opposto, mettendone in evidenza l’ambivalenza. Quest’azione non è sempre antinormativa, al contrario a volte la portata trasgressiva dell’atto, invece che minare, rinnova la norma eterosessuale. Secondo Judith Butler il drag sarebbe dunque sovversivo quando «riflette sulla struttura imitativa tramite la quale il genere egemonico si produce e mette in discussione la pretesa eterosessuale di naturalezza e originalità» (1993, 115), allo stesso tempo, però, può ribadire e riconfermare l’eteronormatività. Come nota Adriana Cavarero (1996, XII), Butler, per provare quest’affermazione, riflette sulla molteplicità delle pratiche del drag, tra le quali quelle messe in atto nel film A qualcuno piace caldo, nel quale il travestimento viene ampiamente ridicolizzato, riconfermando quindi la norma e la dicotomia normale-abietto. Leggendo i numerosi studi nell’ambito queer, si nota che la figura del transessuale, a causa della volontà di cambiare il genere in modo definitivo, ripropone più che destabilizzare lo stereotipo e la rigidità eterosessuale; spesso involontariamente, come nota Flavia Monceri (2010, 13), è proprio la transessualità che può divenire un veicolo di conferma e di costruzione del binario di sesso e genere. È così che si è creata una dicotomia tra i termini transgender e transessuale. Anche se in questo studio mi prefiggo di analizzare il testo di Farias, chiedendomi se, in che misura e come il suo testo possa minare l’eteronormatività, non è mia intenzione fornire delle definizioni rigide di cosa si possa considerare trasgressivo o conservatore o di rafforzare il binario transgender e transessuale, desidero rapportare la teoria alla pratica ed esplorare le problematiche che ne derivano nel campo dell’autobiografia transessuale mettendo in evidenza la particolarità di questo memoir che risiede proprio nella sua ambiguità di fondo. A partire dalle teorie sviluppate soprattutto da Butler, quest’analisi si propone di riflettere sulla scrittura autobiografica di Farias senza la pretesa di giungere a delle conclusioni definitive o di bloccare l’orizzonte teorico; al contrario le teorie di Butler si considerano spunto per relazionare e creare un connubio tra teoria e pratica, tra migrazione, letteratura e teorie di genere e per indagare sulle dicotomie  transgender e transessuale al fine di allargare le possibilità di discussione. In questo saggio, quindi, i binomi transessualità/transgenderismo, trasgressione/conservatorismo, soggetto nomade/queer sono i punti di partenza necessari che ci permettono di analizzare il testo e allo stesso tempo ci conducono ad un loro disfacimento, in direzione di un ampliamento teorico.

  1. Princesa una contromemoria nomade: la disfatta di tutti i generi

Princesa, pubblicato nel 1994 dalla casa editrice Sensibili alle foglie, e al momento non più disponibile sul mercato, è uno scritto molto particolare ed interessante, ambiguo e spesso paradossale. Il testo è accompagnato da una breve introduzione scritta da Maurizio Jannelli, nella quale egli spiega come e in che circostanze è nato il personal writing ed è seguito da un’intervista del giornalista all’autrice, nella quale Farias racconta delle sue esperienze in quanto trans. In questo scritto Farias narra della sua infanzia e adolescenza trascorse nella campagna brasiliana, delle sue esperienze da prostituta nelle grandi metropoli del Brasile negli anni Ottanta e della sua migrazione in Spagna ed in seguito in Italia. Il testo è stato scritto originariamente in sardo, italiano e portoghese e, sebbene sia stato successivamente rielaborato in modo da poterlo rendere comprensibile al pubblico, alcune parole straniere sono state conservate per rendere l’idea della complessità e dell’ibridismo di questo lavoro. Il linguaggio adottato è semplice, le frasi sono molto brevi e spezzate; spesso la terminologia volgare si affianca a descrizioni che ricordano l’immaginario fiabesco creando di conseguenza un testo grottesco ed espressionistico. Farias mescola un repertorio fiabesco e fantastico a descrizioni di vita reale intrecciando fantasia, superstizioni e cruda verità.

Questo memoir può essere considerato sotto molteplici punti di vista una vera e propria contromemoria.[2] A narrare della propria vita è infatti una transessuale brasiliana immigrata in Italia e malata di AIDS, reclusa in carcere per accusa di tentato omicidio: una persona che agli occhi della società può essere definita fuori legge come lo scritto stesso. Questa controstoria trasgredisce infatti qualsiasi norma dell’autobiografia canonica; a scrivere qui non è l’uomo bianco eterosessuale, al contrario è un soggetto minore, eccentrico, che si muove al di fuori dello schema patriarcale dicotomico; inoltre, a differenza di ciò che potrebbe suggerire il titolo stesso del testo, non ci viene affatto descritta la vicenda di una principessa, di un happy ending, ma, come nota anche Anna Proto Pisani (2008, 253), è la storia di una discesa verso l’inferno, dato che molte sono le metafore che lo richiamano, attraverso un percorso doloroso e di disperazione. Fernando, dopo aver subito numerosi abusi e violenze a causa della sua diversità nel paese natale del Brasile, paese che conosce solo la logica «donne da una parte, uomini dall’altra» (Farias de Albuquerque 1994, 28), decide di trasferirsi a San Paolo e infine, dopo anni di duro lavoro sulle strade della metropoli, di migrare in Spagna e in seguito in Italia. Farias smaschera la falsità di una società che tenta di reprimere il diverso, ciò che si oppone alla logica eterosessuale e restituisce la voce a chi è morto nel silenzio. Fernanda narra infatti della sua storia ma anche della vita di amiche, di altre transessuali e outsider; è così dunque che il memoir diventa una biografia collettiva, un «autoritratto di gruppo» (Passerini 2008) e di conseguenza uno strumento politico di denuncia. Farias nomina e dona nuovamente soggettività a vittime dimenticate della prostituzione, della malattia e della droga; scrive quindi di persone che hanno perso completamente la loro identità. Come nota Rita Monticelli (2004, 99), Hortense Spiller nel saggio Figli/e di madre, del padre forse: una grammatica americana, differenzia corpo e carne, spiegando come le schiave nere derubate del loro corpo si siano ridotte a pura carne, senza possibilità di agency nella società. Farias, parlando di amiche vittime di malattia e violenze, compie un atto politico ed etico di resistenza, cercando di dare voce a chi non l’ha mai potuta avere. Non a caso Farias conclude la sua autobiografia ricordando il destino di molte transessuali immigrate e di un’amica:

Senza sforzo, nelle braccia del demonio, in Europa, ci si arriva a bassa voce, silenziosamente. Qui da voi, non si muore fragorosamente. Sparati o di coltello, tra urla e sforbiciate. Qui si sparisce zitti zitti in sottovoce. Silenziosamente. Sole e disperate. Di aids e di eroina. Oppure dentro una cella, impiccate a un lavandino. Come Celma, che vorrei ricordare. Dormiva nella cella a fianco, dentro quest’altro inferno dove ora vivo e che ho deciso di non raccontare. (1994, 103)

La stessa modalità di scrittura mina la base del genere autobiografico perché tre sono le lingue adottate: il brasiliano, l’italiano e il sardo e il memoir stesso è il frutto della relazione amicale tra persone. Nonostante lo scritto sia poi stato redatto in italiano, «mani e provenienze culturali diverse sono forse rintracciabili anche nella sua stesura ultima» (Jannelli 1994, 10). Il lavoro a sei mani e la proficua collaborazione, lungi dall’essere un limite, come è stato giudicato dalla critica anche per gli altri testi a quattro mani delle scritture migranti (Purpura 2007, 461), è invece una ricchezza e un’ulteriore arma che mina le fondamenta dell’unitarietà dell’io che caratterizza il genere autobiografico canonico. Questo memoir è nato dall’amicizia, dalla collaborazione: annulla la caratteristica primaria dell’autobiografia medesima smantellando l’esistenza di un io unitario e padrone di se stesso.[3] Il testo Princesa nasce dunque dalla collaborazione tra tre soggettività che hanno cercato relazione, confronto, nasce quindi da un’amicizia. Stando alle parole di Adriana Cavarero (1997, 85), la caratteristica che costituisce la base del rapporto amicale e che lo differenzia dalle relazioni superficiali, è la capacità di raccontarsi. Secondo la filosofa, infatti, la narrazione del sé è possibile solo se si è in relazione all’altra persona, il narrare è un processo biunivoco perché il sé è relazionale ed intersoggettivo in contrapposizione ad un io monolitico e autosufficiente. È così dunque che Fernanda ha reso partecipe della sua storia due amici, ovvero dei biografi che, «a [loro] volta, [sono] compli[ci] dell’operazione» (ibidem). Farias è stata quindi disponibile a «essere coinvolt[a] da e attraverso gli altri, subendo trasformazioni tali da essere in grado di reggerle e di farle agire in direzione di una crescita» (Braidotti 2006, 187). Tre autori, due identità, due generi e due corpi stanno alla base di questo memoir, l’unitarietà è minata completamente. Per tutte queste ragioni è interessante Princesa, e può essere considerato un testo trasgressivo. L’originalità risiede nella modalità di scrittura che, pur essendo autobiografica, si allontana da questo genere. Le autobiografie, per definizione, vengono scritte con l’intento di legittimare il proprio io e per costruire la propria identità; come nota Jay Prosser nel suo approfondito studio sulla narrativa transessuale Second Skins. The body Narratives of Transsexuality, questo si verifica soprattutto tra gli autori delle biografie transessuali perché essi scrivono per dimostrare che sono divenuti quello che sempre avrebbero voluto essere (1998, 119). Nel loro caso è avvenuta la riconciliazione tra sentimento e corpo quindi è chiaro che «transsexual autobiography, we should not be surprised, produces gender identity» (ivi, 120). In Princesa è evidente la necessità di costruire la propria identità, ma allo stesso tempo, questo processo è paradossale perché, proprio nel tentativo di definire la sua storia personale e il proprio io, vengono incluse anche innumerevoli altre persone e voci. Si allontana quindi dallo stesso genere autobiografico proprio quando cerca di descrivere se stessa. Lo scritto e le modalità adottate sono una “tierra entre medio” nel senso che sono entrambi il risultato di narrazioni, trascrizioni, mediazioni, frontiere; essi costituiscono una collettività che non concorda con la definizione di genere autobiografico e che richiama i “principi” di ibridismo delle teorie queer e nomadi. Gli autori coinvolti nel processo scrittorio sono intervenuti con le proprie prospettive, esperienze e a loro volta hanno incluso racconti a loro tramandati oralmente; in questo modo hanno ampliato le voci e le soggettività restituendo uno scritto plurimo, mediato e quindi forse non più strettamente autobiografico ma intersoggettivo. Da questo punto di vista Princesa può essere considerato un testo queer e transgender, l’identità monolitica autoriale della scrittura autobiografica viene completamente annientata e lascia il posto a più cooautori che a loro volta sono sintesi di altre voci. 

Princesa fa, inoltre, riflettere sulla polarità del sesso e del genere e sulla loro costruzione culturale; Farias ci narra infatti del suo cambio di genere mettendo in discussione la concezione di un corpo unico, normale e di un orientamento sessuale predeterminato dalla biologia. L’autobiografia di Farias diventa dunque una testimonianza di fondamentale importanza perché, come nota Flavia Monceri, 

Il caso dell’individuo transessuale […] obbliga a interrogarsi su quei ‘fatti non contestati’, talvolta neppure da quanti si oppongono al pensiero mainstream, che stanno all’origine dell’idea che l’identità di genere esista e sia così, mettendone a nudo piuttosto le intime contraddizioni (2010, 64).

E ciò sia nel contesto degli studi queer in ambito accademico italiano che, a differenza di quello di altri paesi, dimostra una certa arretratezza, sia nel panorama della letteratura italiana canonica. Gli scritti della migrazione sono produzioni che costituiscono «un interrogativo e una sfida aperta alla formazione culturale del lettore medio» (Pezzarossa 2004, 16); ciò si realizza doppiamente in Princesa proprio perché è un testo trasversale che affronta il tema dell’immigrazione allacciandolo al cambio di genere, alla malattia e al carcere, creando delle connessioni interessanti all’interno delle scritture migranti. È inoltre uno scritto particolarmente ambiguo che dà una totale centralità al corpo che costituisce il movente della narrazione. Farias scrive perché malata e per ripercorrere la biografia del suo corpo, il quale diventa «punto di coincidenza tra fisico, simbolico e sociologico» (Braidotti 1994, 6). Il corpo è innanzitutto un corpo che conta, nei termini descritti da Butler, e costituisce, come fa notare Elena Agazzi, un valido strumento per lo sviluppo del sapere e della riflessione: «il corpo ha smesso di essere nemico del sapere, in età moderna, cioè di costituire l’antitesi della psiche intesa sia come anima che come mente» (Agazzi 2004, 507). Come nota Daniele Comberiati (2007), Princesa è la storia di un corpo e, aggiungerei, di infiniti corpi proprio perché l’autrice racconta dettagliatamente delle sue trasformazioni e di quelle delle altre transessuali indugiando in descrizioni “chirurgiche” e allo stesso tempo più concettuali. In questo modo il corpo assume una totale centralità e il testo risulta essere plastico, tangibile e anche espressionistico perché i corpi che vengono descritti sono perlopiù scarni, malati, in cambiamento e artificiali; i corpi diventano dunque i punti di partenza per rivisitare il dolore, il percorso di tanti transessuali e il concetto stesso di corpo biologico: essi sono colti nel loro aspetto più medico e biologico: «Vomitai una macchia rossa, mi contorsi dal dolore. Fernando mi resisteva, si rivoltava. Durezza del suo corpo» (Farias de Albuquerque 1994, 42); e allo stesso tempo nel lato più concettuale evidenziando quindi la loro costruttività e la possibilità reale di partire dal corpo per ampliare l’immaginabile, come in questa scena in cui Fernanda si trova con un taxista in un’auto e riflette sul suo corpo estraniandosi da esso e immaginandosi altre alternative, estranee alle regole biologiche: 

Io sono lì, scisso, inoffensivo, mentre Fernanda scintilla e si racconta, puttana e studentessa. La guardo, mi guardo. […] Sì, mi piace-lei si racconta-è un guizzo caldo dentro di me. […] Fernando, sono spettatore di me stessa. Fernanda mi sorprende, inaspettata, liberata. Mossette, mossettine. Abita il mio corpo, inghiotte la mia coda, la biscia. (ivi, 36)

È dunque a partire dalle descrizioni di Princesa circa il corpo, la sua trasformazione e soprattutto per il suo approccio intersoggetivo che questo testo può essere considerato queer

 

  1. Un testo a cavallo tra conservatorismo e ribellione. La forza dell’ambiguità in Princesa

Princesa è interessante proprio per la sua ambiguità, per la commistione di elementi trasgressivi e conservatori, per la modalità piuttosto originale di riflettere sulla polarità genere-sesso, che spesso risulta essere molto contraddittoria: infatti Fernanda, stando alle teorie sviluppate da Butler, trasgredisce e allo stesso tempo riconferma paradigmi eteronormativi.

In molte parti del testo Fernanda riflette in modo originale sulla polarità sesso genere. Un interessante esempio è la descrizione di Severina, una transessuale che aiuta a diventare donne, una specie di nuova madre non più biologica ma “culturale”. È possibile, dunque, istituire un parallelo tra la narrazione di Farias e il romanzo La passione della nuova Eva, scritto da Angela Carter. La scrittrice inglese narra delle vicende di un giovane londinese che, dopo aver trovato un posto di lavoro negli Stati Uniti, decide di stabilirvisi. Quello che doveva essere un viaggio di lavoro diventa in realtà un viaggio tra generi; il giovane verrà infatti trasformato in donna da un gruppo di amazzoni. Ornella de Zordo, nel saggio Larger tan Life: Women Writing on the Excessive Women Body (2000, 441), si sofferma sulla figura di colei che forgia il nuovo corpo del protagonista mettendo in evidenza come possa essere considerata come una nuova madre, non più biologica, ma da laboratorio. Si assiste ad una sovversione del ruolo della madre biologica che attribuisce invece un genere determinato. La madre qui diventa una transessuale che crea corpi a sua immagine e che amplia la categoria dell’immaginabile. Lo stesso accade in Princesa, dove Fernanda racconta di Severina: «Sui marciapiedi della grande metropoli, Severina a bombadeira espone i suoi capolavori. Corpi bombati, levigati, siringati al silicone» (Farias de Albuquerque 1994, 58). La figura di questa nuova madre può essere letta in chiave metaforica: apre una riflessione circa la molteplicità dei generi possibili e degli orientamenti allargando l’agenda dell’immaginabile grazie alla fantasia e a nuove associazioni. Il personaggio di Severina è inoltre interessante perché rimanda il lettore alla realtà di altri transessuali, apre uno squarcio sulla vita di strada e sul percorso che molte altre persone hanno intrapreso. Fernanda, raccontando di Severina, che in un qualche modo diventa la nuova “madre” di tutti i transessuali, crea un legame tra la sua esperienza privata e quella di altri, ricordando al lettore ancora una volta come la sua sia un’autobiografia collettiva: la caratteristica biografica del testo e l’io autoriale si annullano per creare un legame con la realtà esterna e con le vicende di altre persone. Allo stesso modo interessanti sono le descrizioni di Fernanda circa la sua infanzia: la scrittrice racconta la sua esperienza di bambina a contatto con il sistema eteronormativo smascherandone meccanismi. Fin da piccola, infatti, Fernanda si sente estranea ai ruoli familiari e mostra come anche un innocente gioco infantile riproduca le norme di genere per incasellare nel binario le persone a partire da un’età molto giovane: «Fernandinho è il principe ed io la sposa. No, ribattevo, anch’io voglio sposare il principe! Oh! Ma tu sei maschietto e non femminuccia, non puoi! Perché no? Anch’io voglio il principe azzurro!» (ivi, 16) e di conseguenza esclude chi non si attiene a tali norme. Fernanda, riflettendo sulla sua emarginazione e sulla sua diversità, afferma: «Per me una colpa, uno smarrimento in un mondo che non aveva la fantasia per inventarmi senza disprezzarmi» (ivi, 38). Queste parole rimandano alle osservazioni di Judith Butler sull’importanza della fantasia come strumento e prerogativa necessaria della società per poter ampliare le categorie del reale e opporsi alle norme vigenti: 

Presupporre delle possibilità che vadano oltre la norma o, meglio, immaginare un futuro diverso per la norma, fa parte del lavoro della fantasia, dove fantasia equivale a pensare il corpo come punto di partenza di un’articolazione non più limitata al corpo così com’è. (Butler 2004, 54)

Di grande interesse è, a mio parere, l’atto del drag in Princesa e le riflessioni che se ne possono dedurre in relazione alle teorie di Judith Butler. Come accennato precedentemente, la teorica statunitense parla del drag in termini sovversivi quando l’azione ripete infedelmente la norma eterosessuale e ne mostra la sua costruzione culturale; il drag in questo caso diventa il punto di partenza per una decostruzione del binario in chiave ironica. Ritengo che Fernanda, indirettamente, attuando il drag porti ad un risultato di questo tipo. Nel testo vi sono delle situazioni nelle quali il travestimento è attuato umoristicamente ed assurge a spunto di riflessione circa il meccanismo dicotomico del sesso e del genere. Per esempio Fernanda narra di essere con un cliente che decide di travestirsi da donna con i suoi indumenti. La prima reazione di Farias alla mascherata è la risata: «Sbottai a ridere per quanto era grottesco, ridicolo sul serio» (Farias de Albuquerque 1994, 90). Il travestimento in questo caso destabilizza le norme di genere e la logica dell’eterosessualità per mezzo di una risata che diventa sovversiva, nel momento in cui quest’uomo si traveste sbarazzandosi delle tradizionali fobie del maschio effeminato e dunque sottolinea come in realtà i confini del genere e le pretese di attaccamento ad un genere siano costruiti e illusori. La risata è liberatoria e dissacrante ma allo stesso tempo amara perché in seguito Fernanda afferma: «Seduta sul letto lo guardavo, e un’ombra nera, un pensiero scuro, mi passò sul volto: c’è un uomo dentro i miei vestiti! Il suo numero di scarpe è anche il mio» (ibidem). L’atteggiamento di Fernanda circa il travestimento è duplice: da una parte ridicolizza la pretesa naturale del sesso e del genere, dall’altra, personificandosi nel suo cliente, si rammenta dei suoi tentativi di autolegittimazione, del suo desiderio di empowerment.

Un esempio analogo è quello degli incontri all’ospedale di Farias con un professore in un periodo di convalescenza in Brasile. La relazione tra i due cambia le norme di genere e ripropone una relazione eterosessuale in un contesto omosessuale. Secondo Butler «la replica di costruzioni eterosessuali in cornici non eterosessuali mette in rilievo lo status totalmente costruito del cosiddetto originale eterosessuale» (1990, 41). Un’altra forma di drag, che a mio parere può essere considerata rivoluzionaria, è la decisione di Farias di non effettuare il passing e di travestirsi anche prima dell’operazione. Secondo quanto afferma Elisa Arfini, le autobiografie della prima ondata della narrativa transessuale sarebbero caratterizzate da un forte conservatorismo perché coloro che desideravano sottoporsi ad un intervento chirurgico dovevano adattarsi alle definizioni preconfezionate di come dovesse essere un transessuale sia per legittimarsi in quanto tali sia per ottenere il consenso a suddetto intervento; ella spiega inoltre che in queste autobiografie, generalmente, gli autori non indugiano in descrizioni relative il transito, al contrario sottolineano il risultato, rafforzando la logica della dualità femminilità/mascolinità. Un valido esempio, fornito da Arfini (2007, 63), è l’autobiografia di Christine Jorgensen che dichiara con soddisfazione di non aver mai indossato abiti femminili prima dell’operazione chirurgica. Arfini spiega che l’autobiografia di quest’ultima sembra essere un manuale perché segue gli “schemi” della transessualità come disforia di genere, spinta dal volere dei medici e dalla necessità di legittimare la sua condizione. Come spiega Arfini, questo scritto, come molti altri testi della prima ondata, è scevro di dettagli e non è personalizzato, non vi è traccia di ripensamenti e di dubbi. Farias, al contrario, racconta più volte di essersi travestita di nascosto prima dell’operazione e di aver preferito effettuare il crossing; la scrittrice rende partecipe il lettore in modo completamente sincero e spesso ironico delle sue avventure e dei suoi travestimenti prima dell’operazione, dimostrando senso pratico, ribellione e volontà di sovvertire la norma, il suo transito, inoltre, risulta essere ampiamente personalizzato e ricco di dettagli: 

Poi, lunga fino alle ginocchia, indosso una gonna a pieghe blu che accoppio ad una camicetta beige con colletto e merlettini […]. Sono pronta per la mia passeggiata cittadina. Incerta, su due scarpette femminili, esco dal giardino e affido la mia onorabilità a due libri stretti al petto. Io, una studentessa. (Farias de Albuquerque 1994, 30)

In questo senso il drag si può considerare queer: Farias non si adatta ad una linea predefinita, con grande forza si ribella ad un ambiente rurale come quello della sua giovinezza e vi si oppone travestendosi anche prima dell’operazione. Infatti, pur vivendo in un contesto che è portato a considerare la transessualità in chiave patologica e pur essendone ovviamente condizionata, è in grado di opporvisi, di perseguire i suoi scopi e di narrarli con grande naturalità e schiettezza. Come anticipato, Butler segnala l’ambivalenza del drag: se esso presenta una forte carica sovversiva per molti aspetti, allo stesso tempo può essere attuato in modo conservativo e divenire complice del sistema. La teorica afferma che spesso, così come accade nel film A qualcuno piace caldo, il travestimento, invece che costituire una ribellione alla norma, diventa una sua riconferma e un rafforzamento perché viene ridicolizzato, così come succede per il carnevale. Dal racconto di Farias emerge quest’ambivalenza: «Ero libero, era il carnevale. Niente insulti, nessuno sguardo storto […]. Mi dipinsi gli occhi, spalmai le labbra di rossetto e calzai le scarpe alte di mia madre. Finalmente!» (ivi, 24). In questo caso il drag è ridicolizzato; proprio nella sua accezione ludica e di provvisorietà è accettato, pertanto il carnevale è un’occasione di conferma del suo carattere di abiezione rispetto alla normalità. Fernanda riflette indirettamente su ciò, rendendosi conto di come il travestimento qui non sia altro che un rafforzamento della norma. 

Se Fernanda risulta essere “coerente” con il pensiero di Butler in vari punti del testo, sono molti gli atteggiamenti di Farias che si allontanano dal pensiero queer, dal femminismo e, come notano Alessandro Portelli (2004) e Daniele Comberiati (2007), dalle idee transgender e decostruzioniste in generale. Questa mistura rende il testo particolarmente interessante ed ambiguo. Il dragè spesso demistificatore, ma al contempo Farias dimostra un forte conservatorismo che ripropone logiche normative di irrigidimento dei generi fino a sfiorare un certo sessismo. Un forte conservatorismo si può rintracciare nell’atteggiamento di Farias nei confronti degli uomini perché nelle relazioni ripropone l’immagine e lo stereotipo di una donna che non cambia il suo corpo per sentirsi bene con se stessa ma soprattutto per piacere allo sguardo maschile riconfermando inoltre il ruolo gerarchico uomo-donna all’interno della relazione di coppia. In questo senso si potrebbe probabilmente affermare che Farias non è riuscita a rompere lo specchio, lo sguardo dell’altro, sul quale ha riflettuto Irigaray (1984, 77-78). Fernanda stessa ammette: «Lo specchio mi assorbì tutta, mi risucchiò nel suo riflesso. Lentamente, iniziai con il fondo tinta, finii con il rimmel e il rossetto. Minigonna e tacchi a spillo» (Farias de Albuquerque 1994, 42). Lo specchio trangugia Fernanda che si prepara per piacere agli altri inscenando una femminilità decisamente convenzionale e allo stesso tempo, essendo metafora dello sguardo maschile, diventa un nemico perché riflette il corpo come una prigione dimostrando quanto quest’ultimo sia veicolo di simboli culturali del potere. Farias dichiara inoltre più volte di voler cambiare il suo genere per piacere all’uomo, la sua non è una soggettività femminile che cambia per se stessa ma per e in base agli altri: «Io per davvero e tu per scherzo. Abbracciami José, che mi voglio femmina per te» (ivi, 41); oppure «Oh, José, se potessi rinascere femmina per un uomo» (ivi, 36).[4] La femminilità di Fernanda è sempre per un uomo, per cercare approvazione. I rapporti di coppia che descrive sono relazioni basate sullo sfruttamento; Fernanda in quanto donna asseconda i desideri degli altri senza ribellarsi: «Lui mi voleva in pantaloni, discreto. Io in minigonna, scintillante. […]. Fu per l’onore della famiglia altolocata che cedetti alla sua richiesta: solo pantaloni Fernando, anche di sera» (ivi, 33).[5] Ripropone inoltre l’immagine di una donna che conquista l’uomo per mezzo di un corpo stereotipato, modellato sui messaggi dei media: «Tuca Rubirosa, presentatrice alla TV, seno giusto e un sedere sproporzionato. Per i brasiliani un trans è perfetto quando ha il culo grande» (ivi, 48). Oppure cade nello stereotipo della donna sensuale che usa il corpo per sedurre l’uomo e dell’ostilità femminile come stratagemma codificato di stampo maschilista: «Era fidanzato con una giovane donna. Niente di grave, pensai, glielo porterò via. Me lo prenderò tutto, lo conquisterò come una donna conquista un uomo. I miei seni cresceranno. I miei fianchi saranno perfetti, come quelli di Rubirosa» (ivi, 50).[6] Da quest’affermazione si nota come Farias associ al significante donna l’immagine della femme fatale, il corpo diventa mezzo di seduzione e l’altra donna è avvertita come una nemica, riproducendo dunque lo stereotipo della naturale avversità tra donne.

Come ben spiega Adriana Cavarero, Judith Butler in Corpi che contano vuole mettere in evidenza quanto il drag possa essere complice dell’eteronormatività e diventare quindi veicolo dei valori binari. Per sostenere questa tesi Butler si riferisce al film Paris is burning di Jennie Livingstone dimostrando come il drag di Venus, una transessuale, possa essere considerato allo stesso tempo sovversivo e conservatore nel senso che alcune dichiarazioni del personaggio riconfermano le logiche normative dell’eterosessualità. Butler scrive: 

Evidentemente, la de-naturazione del sesso, nei suoi molteplici sensi, non comporta una liberazione dalla coercizione egemone: quando Venus esprime il suo desiderio di diventare pienamente donna, di trovare un uomo, avere una casa in periferia e una lavatrice, possiamo legittimamente chiederci se la de-naturazione del sesso e del genere che mette in atto non si concluda in una rielaborazione della struttura normativa dell’eterosessualità. (Butler 1993, 122) 

Al lettore di Princesa può sorgere lo stesso dubbio quando si leggono alcune affermazioni circa la sua relazione con un uomo: «Veniva il fidanzato, il maritino. Me lo rivestii da Coin, gli comprai le scarpe in via Merulana. Piena di buste e bustine recitavo un sabato sera con un bell’uomo affianco. Una normalità, la mia follia» (Farias de Albuquerque 1994, 100). L’atteggiamento di Fernanda è quello della donna codificata e convenzionale che compera i vestiti ad un uomo che non pare essere autosufficiente e che ama avere lo sguardo su di sé perché affiancata da un bell’uomo. Altri indizi, che ci portano a pensare ad una rielaborazione in contesto transessuale di eterosessualità e generi codificati, sono la riflessione e il comportamento di Farias nei confronti delle altre donne. Indirettamente mi sembra che si possa percepire una certa ostilità, avversione e rivalità: «Non mi toccate, dissi, non le voglio le carezze delle donne» (ivi, 46) o ancora riportando le parole di un uomo gay e commentandolo: «Dì alle puttane che ti scopo, non mi va che quelle malelingue sparlino in giro del mio vizio. Ingenuo! Tutte sapevano, tutte gli ridevano dietro, le vipere» (ivi, 47). Mi sembra si possa dunque affermare che quello che emerge qui è che «Le stesse performance drag a volte producono una femminilità eccessiva […] e deviano l’omosessualità attraverso uno slittamento di genere che ri-idealizza certe forme borghesi di scambio eterosessuale» (Butler 1993, 182-183) e che, ristabilendo il binomio delle eteronormatività, riproporrebbero uno schema contrario alle diverse minoranze, ovvero l’uguaglianza tra identità sessuale e naturalità corporea. 

Se si desidera leggere il testo da questa prospettiva, il comportamento di Fernanda appare essere piuttosto conservatore e fedele riproduttore di codici e logiche eteronormative e antifemministe. Allo stesso tempo però Farias dimostra ribellione e determinazione e propone un testo che si può considerare queer proprio per lo stile ibrido, per le condizioni e per le circostanze in cui è stato redatto. Interessante a mio parere è lo stile della narrazione e la scelta di Farias di descrivere l’essere donna o uomo utilizzando la metafora del teatro. In questo modo la riflessione sulla costruzione culturale dei generi, cosi come la loro precarietà, diventa trasparente e trasgressiva. Ammette Fernanda: «Mi esibisco al femminile. Fernanda, ed è spettacolo» (Farias de Albuquerque 1994, 44), o ancora «Indossai gli abiti di Fernando e cominciai a preparare le colazioni» (ivi, 45). Leggendo questi esempi, ciò che colpisce è l’insistenza di Farias nello scrivere dei generi come se fossero delle maschere teatrali, ruoli precostituiti dei quali pero non ci si può spogliare facilmente e senza dolore. Ciò rende chiara la descrizione dei generi come costruzioni, la società è rappresentata infatti, da Fernanda, in maniera piuttosto originale e aggiungerei sovversiva, come se fosse un teatro, un fatto sociale fasullo, un palcoscenico di maschere e ruoli sociali. La sua è una rappresentazione dell’Italia notturna delle strade, della prostituzione, ma soprattutto dello scenario dei generi che al calar del sole emerge, gettando nella confusione più totale la certezza eterosessuale. Per Fernanda, consapevolmente, e per la società inconsciamente, il giorno è il momento della rigidità del binario, della normalità, mentre la notte porta lo scompiglio del genere. Al riguardo afferma Fernanda: «Lo vedevo di sera, mi vestivo da donna: baci sulla bocca e mani sui miei seni. […]. “Non riuscirò mai ad essere donna giorno e notte”» (ivi, 50).[7] Fernanda svela la notte della società italiana, il suo lato oscuro, ciò che generalmente viene taciuto; durante il giorno si assumono ruoli sessuali codificati e socialmente accettati, di notte i corpi trasgrediscono le regole e i generi sessuali sfumano. A questo proposito, interessante è la descrizione dei clienti, della trasversalità dei loro desideri sessuali come sofferenza per Farias, ma anche come prova del traboccare dei corpi e dei desideri dalle categorie precostituite: 

Lungo i marciapiedi di via Melchiorre Gioia, vicino alla stazione di corso Garibaldi, io non seppi più se ero maschio o femmina, donna o uomo. Furono loro, i milanesi della prima notte, a precipitarmi nella confusione. E non certo perché il loro sguardo fosse rivolto al cielo, quelli non vedevano il più uomo di tutti gli uomini: l’Androgino: l’Adamo bisessuale. (ivi, 84)

Questa affermazione è, a mio parere, molto importante e dal duplice risvolto perché, se da una parte svela come i corpi, le persone, trasgrediscano le rigide imposizioni binarie, e come Fernanda rifletta su ciò, allo stesso tempo dimostra l’allontanarsi di Farias dalla flessibilità e fluidità dello spirito queer perché quest’ultima sembra non sopportare la confusione di genere causatale dai milanesi e preferire un ruolo più definito. Farias vorrebbe che i clienti milanesi cercassero solamente il suo lato femminile, non riesce a capire esattamente cosa essi desiderino e ammette il suo smarrimento e la necessità di sentirsi donna a tutti gli effetti: «Io non ho mai capito se i milanesi comprassero una donna con il pene o un uomo con i seni. La cosa non mi interessava, era soltanto per lavoro, si poteva fare. In fondo, bloccata sull’invisibile confine, trafficavo per un futuro tutto al femminile» (ivi, 84-85). Fernanda dimostra, inoltre, di distaccarsi ampiamente dal transgenderismo, a volte comportandosi in modo piuttosto sessista: «Un frocio. Mi tradiva col peggiore dei tradimenti: darsi come una femmina con un gay, il mio uomo» (ivi, 54). La fluidità del genere, della preferenza sessuale è completamente assente in questa enunciazione di Fernanda che dichiara in tutto il testo la sua necessità di avere un’identità fissa, stabile e la sua disperazione che deriva dalla mancanza di ciò: «Tra un passo e l’altro c’è l’abisso. Ed era esattamente lì che io fluttuavo. Né prima, né dopo. Nella schiuma, tra lo scoglio e il mare. Non sapevo più chi ero, quello che volevo, dove andavo. Camminavo, con il bagaglio stretto in mano e la notte segnata all’orologio» (ivi, 35). Come notato precedentemente, se i rapporti di coppia spesso sono una vera e propria rielaborazione dell’eterosessualità, altre volte, invece, evidenziano la loro costruzione culturale e la critica verso di essa. Donna o uomo sono ruoli che si assumono e si recitano: «Era deciso, solo Fernanda. Sarà questo il mio futuro, la fantasia. Mi prese come un uomo prende una donna» (ivi, 41). Se ci si attiene alle teorie sviluppate e discusse da Butler in La disfatta del genere e Corpi che contano, molti dei comportamenti di Farias potrebbero essere considerati contrastanti e conservatori proprio perché, come fa notare Jay Prosser (1998, 33), Butler crea un’equazione tra transgender = performatività di genere = queer = sovversivo, nella quale i transessuali, proprio a causa della loro volontà di raggiungere un’identità più definita, ne sarebbero esclusi. Princesa, come altri racconti di transessuali, ci fa capire quindi come sia importante mantenere aperte le teorie queer e inoltre sottolinea l’importanza della categoria del sesso che, come fa notare Jay Prosser (ivi, 27), è stata spesso messa in secondo piano nelle teorie queer. In questo senso, quindi, è un testo ampiamente interessante, ci fa riflettere circa le teorie queer soprattutto dal punto di vista dei transessuali i quali a volte aspirano a percorsi diversi che negano lo schema discusso da Butler: 

there are transgendered trajectories, in particular transsexual trajectories, that aspire to that which this scheme devalues. Namely there are transsexuals who seek very pointedly to be nonperformative, to be constative, quite simply, to be. What gets dropped from transgender in its queer deployment to signify subversive gener performativity is the value of the matter that often most concerns the transsexual: the narrative of becoming a biological man or a biological woman (as opposed to the performative of effecting one) –in brief and simple the materiality of the sexed body (ivi, 32). 

Mi pare sia proprio questo il caso di Princesa.

Di interesse queer sono le critiche nei confronti della società. Fernanda, parlando del professore incontrato in ospedale e con il quale inizia una relazione, afferma: «Uomo di cultura, l’ho già detto. Lui preferiva sfilarmi i pantaloni, io tirarmi su la gonna. Un equivoco in amore. Non mantenni la promessa. A sua insaputa facevo le mie passeggiate solitarie» (Farias de Albuquerque 1994, 34). Come chiaramente si evince da queste parole, Farias dimostra di assumere un atteggiamento ribelle e critica aspramente la cosiddetta cultura alta con le sue falsità e contraddizioni, l’ipocrisia della società borghese basata su recite e apparenze.

Mi sembra interessante confrontare la narrazione di Farias con l’esperienza di altri vissuti di transessuali. Elisa Arfini, nel già citato lavoro Scrivere il sesso, passando in rassegna le narrazioni autobiografiche di altri transessuali, afferma che si possono distinguere due ondate in questa produzione: la prima, alla quale appartengono i primi scritti degli anni Sessanta, caratterizzata da testi che ripropongono l’ottica dicotomica e l’altra riguardante gli autori che generalmente non descrivono la loro metamorfosi ma «un salto piuttosto brusco da uno status sessuale all’altro» (Arfini 2008, 278); si tratterebbe dunque di «maschi (o femmine) infelici che giungono all’identità di genere opposta in maniera efficace, completa e veloce» (ibidem). Al secondo gruppo apparterrebbero invece dei testi transgender, che vanno al di là di tale visione e che suffragano dunque le più moderne teorie queer. Si può quindi affermare che esiste una scala di trasgressione grazie alla quale giudicare i testi che risulterebbero più o meno marcatamente queer. Gli scritti della seconda ondata metterebbero in risalto l’aspetto del crossing più che del passing, l’atto trasgressivo del cambiamento e della fluidità del genere; al contrario gli autori dei testi più conservatori mettono in evidenza la loro necessità di passare da uno stato definito all’altro senza valorizzare la metamorfosi in atto. Questo accadeva soprattutto perché in passato, per ottenere l’operazione, era necessario seguire questo percorso. Il passing significherebbe insomma «essere conniventi con un regime patriarcale che limita le identità di genere in due rigide caselle», mentre il crossing sarebbe una scelta «più sovversiva in termini politici» (ivi, 287). Le divisioni tra transgender e transessuale non dovrebbero tuttavia mai rimanere rigide così come l’equazione transgender = trasgressivo e transessuale = conservatore come pure le scelte che non sono propriamente definibili transgender perché, come ricorda Flavia Monceri, «se e finché sono i singoli individui interessati a scegliere liberamente di conformarsi alle categorie dominanti con tutti gli strumenti a loro disposizione» (2010, 13) non si costituirebbe alcun problema. Altrimenti si rischierebbe di creare delle esclusioni o delle etichette pregiudizievoli nei confronti della transessualità che paradossalmente risulterebbero contrarie alla liberalità di fondo del movimento queer. Nonostante ciò, per semplificare lo studio e per analizzare il testo Princesa, mi è sembrato utile in questa sede ricorrere a tali spiegazioni proprio per mettere in evidenza come questo memoir faccia tracimare tali categorie.

Un’autobiografia che si definirebbe completamente queer, che si oppone quindi all’equazione transessuale = conservatore, è quella della transessuale lesbica Kate Bornstein, per la quale, come nota giustamente Judith Butler (2004, 93), il passaggio dall’essere maschio a femmina non determina la ricaduta nel binario escludente dell’eterosessualità. Bornstein, infatti, afferma: «What I’ve found as a result of this borderline life is that the more fluid my identity has become, and the less demanding my own need to belong to the camps of male, female, gay or straight, the more playful and less dictatorial my fashion has become-as well as my style of self-expression» (1994, 4). L’esperienza della metamorfosi è vissuta positivamente da parte di Bornstein, non solo perché le permette di diventare ciò che realmente desidera, ma anche perché in questo caso la trasformazione diventa strumento di conoscenza e approfondimento della realtà. Secondo Bornstein i transessuali e i transgender possono rompere il binario e ricreare un third space alternativo: «it’s when we question the binary, it’s when we break the rules and keep calling attention to the fact that the rules are breakable: that’s when we create a Third Space» (ivi, 140). La testimonianza di Bornstein è molto importante perché dimostra come la transessualità non debba essere considerata necessariamente come un irrigidimento dei generi in contrapposizione al pensiero di molte femministe. Secondo Kate Bornstein i transessuali o i transgender devono raccontare la loro storia, il loro passato, non attuare il passing, parlare quindi anche del genere iniziale per poter rompere il binario. Bornstein afferma, inoltre, che la cultura dominante strumentalizza l’atteggiamento di molti transessuali i quali, dopo essersi operati, tendono a lottare per il riconoscimento dello status del genere evitando in questo modo di mettere in evidenza la propria metamorfosi e impedendo con questa attitudine di mettere in discussione il sistema. Di conseguenza è di fondamentale importanza per i transessuali parlare della propria storia per essere dissociati dal concetto di passing che è «built into the culture’s definition of transsexuality» (ivi, 127).

Il memoir Princesa, come osservato precedentemente, si distacca notevolmente dalle più moderne teorie queer, nel senso che è ben diverso dal testo di Bornstein, e, seguendo questi parametri, potrebbe essere definito piuttosto conservatore per molti aspetti. Allo stesso tempo molte sono le caratteristiche che accomunano questo scritto alla teoria queer, perché, il testo è sintesi di più esperienze, intreccia il fenomeno migratorio, la transessualità, le problematiche di genere alla letteratura italiana migrante e riporta l’attenzione sulle esperienze queer di transessuali. A mio parere il testo inoltre colpisce perché non rispetta le rigide categorie di definizione delle autobiografie transessuali e transgender e perché rappresenta un vero e proprio disfacimento del genere autobiografico. Farias potrebbe considerarsi quindi un soggetto nomade, mestizoqueer nel senso che è un soggetto che «è contrassegnato da una strutturale non aderenza a regole, ruoli e modelli» (Braidotti 2002, 54). Princesa si apre a numerose, differenti interpretazioni; come ho puntualizzato in precedenza, Farias propone talvolta lo stereotipo di una femminilità costruita e patriarcale, interiorizza e mette in atto modelli fallocentrici nella relazione con le altre persone. Per questo si potrebbe pensare che il suo testo si avvicini alla prima ondata della produzione transessuale e che, come osserva Braidotti, «La moltiplicazione numerica delle opzioni di genere non riesc[a] a alterare l’equilibrio di potere e l’economia politica della dialettica sessuale, che è uno dei motori del regime fallologocentrico» (ivi, 52). Al contempo la narrazione di Farias è molto interessante perché riporta le riflessioni teoriche e i teorici stessi alle autobiografie e ai vissuti delle persone che hanno effettivamente attuato una trasformazione stimolando una metariflessione. Credo dunque che l’originalità del testo stesso risieda proprio nella sua ambiguità di fondo. Un’ambivalenza disarmante che riconferma e complica tali teorie aprendo altre posizioni all’interno del movimento che non devono essere lette necessariamente in chiave conservatrice. Come si evince dal lavoro di Arfini (2007, 49), le teorie queer si propongono proprio questo, allargare e non escludere, costituendo un invito alla molteplicità. Quello di Princesa risulta essere uno scritto duplice, interpretabile a più livelli, ed è proprio quest’equivocità che lo rende interessante e coerente con le teorie queer che, come ricorda Arfini, non vogliono fornire una norma o un modello da seguire, ma semplicemente stimolare e allargare l’immaginabile. La raccolta di scritti autobiografici Tra le rose e le viole. La storia e le storie di transessuali e travestiti  (2002) di Porpora Marcasciano fornisce un ulteriore esempio di come non sia possibile categorizzare e, come ricorda Elisa Arfini, cercare le risposte prescindendo dai testi autobiografici stessi. La teorica, riflettendo sulle problematiche transgender, si chiede infatti se questi ragionamenti si possano applicare alla pratica; secondo la studiosa vi sono molte questioni che i teorici transgender non affrontano: ad esempio quanto sia effettivamente difficile attuare il crossing in una società molto sessista caratterizzata ancora da episodi di violenza transfobica, chi debba decidere quali sono gli esempi di femminilità o mascolinità che i transessuali possano personificare, ma si chiede in particolare se la scelta tra crossing e passing poi nelle biografie sia così rigida (2008, 287). Secondo Arfini, la risposta si può trovare nelle biografie stesse. Se si legge Princesa è proprio questo che si deduce così come nelle storie di transessuali e travestiti di Tra le rose e le viole: che è impossibile fare delle classificazioni rigide e quanto sia difficile definire cosa sia la trasgressione. I brevi racconti autobiografici di Tra le rose e le viole sono molto diversi tra di loro, alcune transessuali “aderiscono” maggiormente al modello queer, come Roberta che per esempio sottolinea l’importanza del crossing nella sua vita: «ora potrei essere una donna come tante altre, ma non mi ci sento, sono una donna che è stata una trans, che è stata anche un uomo e per me tutto questo è importante, fa parte di me, della mia esperienza e non ci rinuncerò mai» (Marcasciano 2002, 36) o come Pina che preferisce dichiararsi transgender piuttosto che transessuale per mettere in evidenza il suo «transitare da un genere all’altro, più che da un sesso all’altro» (ivi, 84). Vi sono altresì delle testimonianze assai particolari e ambigue come quella di Gianna che in un qualche modo rinnega la fase trans e preferisce attuare il passing: «Per me la fase trans, che è durata circa tre anni, è stata solo un passaggio, ho sempre desiderato di volermi operare e non mi interessava propormi come trans» (ivi, 62), ma allo stesso tempo decide di conservare tutte le foto del passato e valorizzare l’esperienza dell’identità plurima (ivi, 64). Lo stesso vale per Nadia che in un qualche modo sogna la normalità affermando: «Il mio sogno è di avere una casetta mia, una sicurezza economica, un mio compagno» (ivi, 55), ma non per questo si fa portavoce di un rafforzamento della norma eterosessuale. Sia Princesa sia questi racconti, sono interessanti proprio per la loro diversità e molteplicità e per questo risultano alla fine essere queer, il cui spirito costitutivo, come ricorda Arfini (2007, 49) riferendosi al fecondo disaccordo tra teorici sulla definizione del termine transessuale, è l’incongruenza, la pluralità, mentre l’obiettivo finale è quello di far sorgere altri dubbi, insicurezze e domande. Il memoir Princesa, proprio a causa della sua complessità, della commistione di più culture e delle sue contraddizioni, lascia nel lettore grandi dubbi, stimola l’immaginazione e la curiosità. Riporta inoltre il lettore e il critico letterario dalle teorie alla vita: Fernanda presenta un vissuto complesso, che è sintesi di più persone che si sono incontrate, intrecciate e di più lingue. Questo scritto è inoltre plurimo, trasversale perché pone problematiche principalmente legate al genere e alla sessualità, ma le intreccia con il fenomeno migratorio; quindi come nota Giulio Iacoli, la figura del migrante diventa centrale perché si iscrive nel processo di «espansione del territorio critico, rivendicando la possibilità, per l’agenda queer, di intersecare altre agende, di operare connessioni diagonali tra le preoccupazioni della teoria e l’effettiva configurazione abnorme e in transito di straniere e stranieri nella sfera geosociale dell’Occidente» (2009, 112). Non mi sembra, quindi, arrischiato affermare che questo personal writing si possa definire queer non tanto per il contenuto biografico del testo, in quanto sarebbe assai complicato e forse troppo azzardato da giudicare, ma proprio per l’interdisciplinarità che lo caratterizza, lo stile ibrido tra oralità e scrittura e la commistione di esperienze.

  1. L’identità nomade di Fernanda Farias

Si può dunque affermare che Farias è un soggetto nomade, queer per svariate ragioni. Innanzitutto perché parte da un corpo che è sessuato per decostruire la realtà e per allargare l’immaginabile. Farias descrive la sua vita per mezzo e attraverso le sue esperienze corporee, tutte le vicende sono filtrate dal corpo e in questo senso il suo racconto è fortemente posizionato, sessuato e non metafisico o astratto. Si può tranquillamente affermare che Fernanda scrive sul e con il corpo, affrontando le problematiche del genere e anche della malattia, accoglie dunque l’invito di Cixous (1975), il suo inchiostro è corporeo. Mette dunque in evidenza quanto il corpo sia un costrutto complesso, stratificato, eccentrico rispetto alla centralità del sistema logocentrico. L’esperienza della malattia, del disfacimento del corpo e del dolore sono dunque sperimentate da Fernanda in chiave nomade perché le permettono di giungere ad una ulteriore deterritorializzazione. Secondo Liliana Rampello «la pazzia, la malattia, anche la più banale, ci fa sperimentare una diversa qualità dell’esperienza di cui dobbiamo fare tesoro perché insegna la continuità del mondo, il trionfo ineludibile della Natura e non dell’io» (2005, 20). Ciò si riscontra in Princesa perché l’esperienza dell’AIDS e della reclusione portano Farias ad una maturazione ulteriore che parte dalla percezione del sé come soggetto incarnato e intersoggettivo; il dolore è stato trasceso dal processo del divenire della pratica scrittoria che ha prodotto la nascita di un memoirche nomadizza il lettore e gli scrittori stessi, avviando quindi a sua volta un processo nomade e una contromemoria. Secondo Braidotti: 

Il divenire […] trasforma la negatività in affetti affermativi: il dolore in compassione, il senso di perdita in legame, l’isolamento in attenzione partecipata. È contemporaneamente un rallentamento del ritmo della frenesia quotidiana e un’accelerazione della consapevolezza, dell’essere in connessione con gli altri (2006, 244).

Il memoir è proprio il prodotto di questo processo etico nomade:  un «Andare oltre gli effetti paralizzanti prodotti dal dolore su di sé e sugli altri» (ibidem) elaborandoli e trasformandoli. È dunque una rivisitazione collettiva e condivisa della sofferenza, a sei mani, che attiva una scrittura nomade perché rende coscienti i lettori e permette l’esorcizzazione del dolore negli scrittori, il che non significa annullamento della negatività ma la «sua trasformazione in passioni positive» (ibidem). Questo processo si evince dalle parole di Jannelli nella breve prefazione, egli infatti ammette: 

Una crisi profonda portò Fernanda sulla soglia dell’irreparabile. Quel giorno, in quel momento, la scrittura irruppe tumultuosamente nella sua vita. Giovanni […] le consigliò la medicina: scrivere per tenersi insieme, per resistere all’azione devastante della reclusione, per non dimenticare di essere nati liberi. Anch’io, che nel frattempo stavo riordinando i suoi fogli sparsi, venni coinvolto in quella pratica vitale. (Jannelli 1994, 7)

 

Dai commenti del giornalista emerge chiaramente quanto lo scrivere sia stato terapeutico per i tre amici. Tracce di questo processo “riabilitativo” si trovano anche nel testo, sia quando Fernanda racconta delle lettere, che hanno anche funto da diario, lettere che ha continuato a scrivere alla madre nel tentativo di ricreare una connessione con la famiglia e per superare il dolore: «Scrissi una lettera a Cícera: sono scappato perché non sono un uomo. Non mi piacciono le donne, sono nato per amare i maschi. Tu non vuoi capire. Anche Álvaro, tutti a Remigio mi guardano con gli occhi storti. Non ho avuto il coraggio di dichiararmi davanti a te. Quando la mia vergogna finirà ritornerò», (Farias de Albuquerque 1994, 51) così pure quando scrive del suo disorientamento «Sniffo eroina, non ho più futuro. L’Europa è spenta, io brancolo nel buio. Non so più che voglio, perché lo faccio. Non fa più giorno, non so più chi sono» (ivi, 101). Il dolore e la disperazione sono state quindi rielaborate in carcere attraverso l’amicizia, la condivisione e la pratica scrittoria: «Le mancò la terra sotto i piedi, si aggrappò a noi. E noi a lei. Perché, sia io che Giovanni affannavamo un senso, un tempo, una identità diverse da quelle eterne scandite dal nostro carceriere. E per due anni la scrittura di Fernanda sopportò, senza spezzarsi, anche il peso dei nostri interrogativi, i silenzi, le riprese e gli abbandoni» (Jannelli 1994, 9).

Ciò che rende ancora di più questo testo nomade è la posizione in cui si trova Fernanda e il suo modo di agire; Fernanda interviene in quanto Altra perché si trova in una posizione minoritaria ed eccentrica, ella «ha a che fare con quel tipo di coscienza critica che si sottrae, non aderisce a formule del pensiero e del comportamento socialmente codificate» (Braidotti 1994, 8). È così che il conservatorismo, la falsità della società contemporanea, che tenta di rafforzare le dicotomie normale-abietto, viene minata «dal ritorno degli “altri” della modernità: la donna, Altro sessuale dell’uomo, l’etnico o nativo, Altro del soggetto eurocentrico, e il naturale o terra, Altro della tecnocultura, [che] vengono alla ribalta come controsoggettività» (Braidotti 2003, 143). Fernanda, in qualità di Altra, attiva quindi «ciò che Foucault chiama contromemoria; […] una forma di resistenza all’assimilazione o all’omologazione alle modalità dominanti di rappresentazione dell’io» (Braidotti 1994, 31).

Infine il testo si può considerare nomade e queer soprattutto per il suo stile linguistico; esso costituisce un vero e proprio attacco al monolinguismo e una sua deterritorializzazione. Il testo è poliglotta, un intersecarsi di lingue diverse e per questo nomade: «il poliglotta osserva la situazione con estremo distacco critico […]. Essere tra le lingue rappresenta un vantaggio per la decostruzione dell’identità» (ivi, 16). Lo scritto è la commistione di più lingue, di più identità; gli autori, come alcune traduttrici femministe (Simon 1996, 15), fanno parlare il testo per loro creando una lingua di resistenza e opposizione. Anche se Fernanda tenta di ricostruire la sua identità più che decostruirla perché, come ricorda Derek Duncan, accade spesso che nelle autobiografie gay, ma si può estendere anche ad altre minoranze, la differenza sia usata «come un mezzo per stabilire, nella speranza di mantenere, un’identità per lo scrittore e anche per il lettore» (2006, 94), non per questo si può affermare che non sia nomade o mestiza perché, prima di arrivare ad una maturità di questo tipo, come ricorda Braidotti, (1995, 40) è necessario possedere l’unitarietà e la sicurezza. La nomadicità risiede nel testo stesso, nella modalità in cui è stato scritto, nella sua storia, nel suo essere contromemoria e resistenza. L’approccio alla scrittura è trasverso e orizzontale, evade i canoni dell’occidentalismo autobiografico, è quindi rizomatico. 

Princesa è uno scritto che sorprende per svariate ragioni, innanzitutto per la spontaneità e immediatezza attraverso le quali è narrata una vicenda molto dolorosa come pure per le condizioni che hanno permesso la nascita del testo stesso: l’amicizia tra più persone. In secondo luogo per l’ambiguità del testo nel quale, se talvolta non vi è una vera e propria «politicizzazione del corpo sessuato, ovvero il riconoscimento del potenziale politico insito nella contestazione e nella sovversione dei generi obbligatori» (Arfini 2007, 72), è da riscontrare un vero e proprio attacco al canone letterario. Il messaggio è narrato attraverso il genere autobiografico che viene decostruito in tutte le sue parti; insomma tutto risulta essere in trouble: il genere, l’orientamento sessuale, il pensiero dicotomico e l’autobiografia classica. Infatti se quest’ultima è quel genere che ha sempre proposto un modello di identità pre-costituite, allora Princesa è un’eccezione, perché, come fa notare Elisa Afini, le storie trans «ci forniscono un esempio di come la narrazione di sé debba essere considerata in una cornice costruttivista, piuttosto che mimetica. Il racconto di sé non è mai il semplice riflesso di una soggettività pre-costituita» (2008, 277). Princesa non aderisce a nessun modello precostituito, nel genere dell’autobiografia né tantomeno nella letteratura italiana, della quale è stata una pioniera. 

  1. La Princesa queer di Henrique Goldman

A Fernanda Farias è stata dedicata non solo l’omonima canzone di Fabrizio de André, ma anche il film del regista brasiliano Henrique Goldman uscito nel 2001, vincitore del premio miglior film straniero al Festival Outfest di Los Angeles. Questa meravigliosa trasposizione cinematografica si focalizza soprattutto sui sentimenti di Princesa, recitata eccellentemente dall’attrice Ingrid de Souza, e può essere interpretato come un Bildungsroman queer della protagonista. Viene infatti messo in scena il percorso di formazione identitario intrapreso dalla protagonista: da una fase di incertezza e messa in discussione iniziale del proprio sé fino al raggiungimento di una consapevolezza e presa di coscienza della propria identità di tipo queer-nomade. Il regista ha deciso di trattare solamente l’esperienza in Italia di Farias iniziando dal suo arrivo in treno a Milano e tralasciando l’esperienza del carcere, rispettando in questo modo il volere di Farias (1994, 103). È stimolante in questa sede istituire un breve confronto tra film e testo perché, a mio parere, quest’ultimo coglie pienamente l’aspetto queer di Farias. Il regista è riuscito a restituire un’immagine di Fernanda molto complessa, una personalità a cavallo tra tradizione e modernità e la tensione tra trasgressione e conservatorismo, insomma, ha inscenato perfettamente l’ambiguità che è stata oggetto di questo studio scegliendo di rilevare le scelte queer di Fernanda. È inoltre interessante osservare che ambiguo è anche lo stile cinematografico di Goldman: in gran parte del film Fernanda viene rappresentata come il cliché del transessuale che vuole entrare nel binario della normalità etero e che auspica l’operazione con tutte le sue forze. Fernanda incontra Gianni, un uomo milanese sposato di cui si innamora, e decide di andare a convivere con lui. In questa fase della sua vita Fernanda è ritratta come la perfetta casalinga: donna molto femminile, trascorre il suo tempo a stirare le camicie del fidanzato e a preparare deliziose cenette. È inoltre in terapia da una psicologa che le spiega quali sono gli effetti e i rischi dell’operazione chirurgica e che le somministra anche dei farmaci per “incasellarla” nel femminile. Se inizialmente tutto ciò sembra essere quello che Fernanda desidera ci si accorge poi che non lo è affatto, Farias attuerà una scelta completamente diversa: per quanto doloroso, deciderà di lasciarsi alle spalle la vita fino ad ora condivisa con Gianni, quella vita milanese borghese nella quale non si è mai sentita accettata e opterà di ritornare tra gli altri transessuali, libera da qualsiasi costrizione che le impedisca di vivere il suo transito. Se fino ad un certo punto il lungometraggio sembra dunque prendere una piega del tutto convenzionale, soprattutto nel momento in cui Fernanda incontra la moglie di Gianni e, dopo che quest’ultima la prega di lasciarlo perché è incinta di lui, decide di andarsene attuando così il ruolo della donna remissiva e rassegnata che tenta anche il suicidio, in realtà il finale è queer. La bellissima scena conclusiva nella quale Fernanda si trova in macchina con un cliente assorta in se stessa, estranea e sorridente ne è la conferma. Il sorriso liberatorio, l’atteggiamento indifferente al dialogo dell’italiano medio che la affianca, ricordano la risata dissacrante della medusa di Cixous. La consapevolezza che esiste un terzo spazio, che, come fa notare Rosaria Carbotti, nasce dal confronto tra le tendenze più normative e quelle delle sottoculture, «un’arena destrutturata dove si riconfigurano altre possibilità di rappresentazione, spazi creativi turbolenti e suscettibili di continue trasformazioni» (2008, 115). Che ci sia dunque posto per delle scelte non tragiche che vadano al di là dei modelli preconfezionati che vengono proposti dalla società, sembra proprio quello che vuole trasmettere il regista. A differenza del finale di Boys don’t cry che, come nota Carbotti, viene definito giustamente convenzionale da Halberstam, proprio perché la parte finale sembra «inspiegabile e posticcia, una concessione alle convenzioni che vengono altrove attentamente rigettate» (ivi, 124), Goldman è riuscito invece a rendere la complessità dell’articolata personalità di Farias in direzione di una maturazione ed accettazione queer. La Fernanda di Goldman è contraddittoria, estranea a logiche occidentali o a schemi prefissati. Un esempio di ciò può essere la scelta del regista di insistere sulla componente religiosa. Quest’ultima è presente fin dall’inizio: quando in treno Fernanda stringe il crocefisso che ha appeso al collo per paura del controllo della polizia, al momento della preghiera in chiesa, fino alla geniale scena in cui Fernanda regala alla transessuale che la ospita in casa a Milano un souvenir rappresentante una suora. Questa religiosità intima e ancestrale stride con le scene di prostituzione e violenza sulle strade della metropoli, spesso girate con in sottofondo una musica energica, esplosiva e inscena un modo di essere paradossale, ambiguo. È sintesi dell’identità imprevedibile di Fernanda che fa esplodere le categorie predefinite e richiede altri spazi alternativi, al di fuori di una qualsiasi definizione o modello.

Interessante è anche la scelta di Goldman di reinterpretare il testo rifiutando la fedeltà assoluta dell’originale «favorendo un’estetica della contaminazione e della riscrittura infinita» (Fusillo 2008, 23). Goldman decide infatti di lasciare sullo sfondo il corpo malato, la parentesi della tossicodipendenza, la tragica violenza di cui è permeato il testo autobiografico, rimanendo comunque molto coerente alla personalità di Fernanda. Attua quindi «una strategia di lettura che [sa] dimostrarsi persuasiva e coerente, capace di illuminare nuove zone del testo, senza ridursi  invece a una pura questione di nominalismo, a una diversa etichetta per antiche prassi narrative» (ivi, 26-27). Il regista, infatti, allontanandosi dal testo, ne rimane profondamente legato decidendo di portare all’evidenza l’essenza queer della personalità di Fernanda e illuminando quindi la parte implicita e di non immediata comprensione del testo stesso. Lo scritto, invece, attraverso la scrittura plastica ed espressionistica che indugia molto sulla trasformazione del corpo e sulla malattia, è quasi più visivo della rappresentazione cinematografica. Testo e film si scambiano dunque i ruoli e si ibridano. È così che lungometraggio e memoir sono contaminati e dipendenti; non si possono isolare, al contrario, la comprensione si ottiene dalla loro compenetrazione. Si possono considerare dunque come due opere in cui «si intrecciano lo schermo, l’occhio, i libri, alludendo a una sintesi delle arti per nulla organica, ma frammentaria e dissonante…» (Fusillo 2005, 10), necessarie le une alle altre. 

La scena in cui Fernanda è a disagio al ristorante con il compagno e una coppia di amici o quella finale in cui Fernanda ride felice, opponendosi a qualsiasi modello e rivendicando uno spazio tutto per sé, sono simboli della sua maturazione nomade che è raggiunta attraverso un percorso contraddittorio, ambiguamente queer

  1. Verso l’annullamento di ogni categoria: Princesa e il femminismo nomade, una contraddizione?

            L’adattare alcune teorie femministe, come il nomadismo filosofico di Braidotti, ad un testo di una transessuale, che spesso riproduce degli atteggiamenti piuttosto logocentrici, potrebbe forse essere letto come una vera e propria contraddizione di metodo. Le teorie al di là del genere di Butler hanno sollevato non poche polemiche all’interno del movimento femminista più tradizionalista di stampo francese. Rosi Braidotti afferma il suo disaccordo nei confronti di tali posizioni perché a suo parere, e a parere di altre femministe, l’annullamento dell’identità sessuata femminile potrebbe ricondurre la donna nell’universalismo maschile che ha caratterizzato la cultura fallogocentrica. Nonostante le divergenze tra le posizioni del femminismo statunitense e francese, entrambe le teorie giungono attraverso percorsi diversi alla conclusione che è necessario opporsi ai modelli preconfezionati e a alle costruzioni del sistema logocentrico. Il mettere a confronto dunque le teorie del nomadismo filosofico femminista con un testo di una transessuale e allo stesso tempo con le teorie di Butler è nato dalla necessità di allargare l’agenda. Farias, anche se spesso ripropone modelli piuttosto discutibili e logocentrici, è un soggetto nomade e minore che si muove a suo modo all’esterno del pensiero dicotomico andando a suffragare le teorie di queste filosofe perché entrambe si propongono di andare al di là dell’unicità della logica occidentale, aprendo la via a possibili interpretazioni del reale. Farias offre un suo modello queer e nomade che è specifico, su misura, e ricorda dunque quanto sia necessario apprendere dalla lezione femminista del partire dal sé posizionato, riconferma cioè l’obbligo di partire dalle necessità singolari e di non teorizzare allontanandosi dalla pratica e dall’esperienza reale, come si evince dal lavoro di Arfini (2007). 

            Inoltre, sarebbe forse obiettabile il fatto di aver relazionato il testo di un’autrice minore a teorie mainstream come quelle di Butler o Braidotti. Anche qui però si può giungere ad una conclusione conciliatoria. Si può infatti sostenere che sia possibile una feconda continuità e uno scambio reciproco sorpassando le ormai datate dicotomie occidentale/altro, senza però annullare le differenze, al contrario apprendendo la lezione dell’ibridismo culturale così come ci ha insegnato la lettura di questo memoir in direzione di una commistione tra occidentale e Altro che, lungi dall’annullare entrambe e riprodurre la logica della sopraffazione, le arricchisce, dimostrando come le categorie siano in realtà dei limiti.

 

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[1] Il concetto di nepantla viene ben descritto da Paola Zaccaria come «la condizione di disorientamento psichico che deriva dal vivere sul terreno incerto del confine/frontiera» (2008, 197). 

[2] Per approfondire il concetto di contromemoria vedi Monticelli (2007). 

[3] Per approfondire lo studio del confronto tra memoir e autobiografia vedere il lavoro di Romeo Narrative tra due sponde. Memoir di italiane d’America (2005).

[4] Fernanda chiama spesso i suoi clienti indifferentemente José. Usa spesso queste denominazioni quando sta descrivendo il suo aspetto fisico o il desiderio di migliorarlo, in questo modo i José rappresentano gli occhi della società, lo specchio nel quale si riflette (1994, 41).

[5] Fernanda qui sta descrivendo il suo rapporto con un avvocato e professore che ha incontrato in un ospedale di Campina Grande in un periodo di convalescenza per un’intossicazione alimentare. I due intraprendono una relazione per un breve periodo ma infine Fernanda, a causa degli innumerevoli problemi con la sua famiglia e quella del professore, decide di partire per la cittadina di Joao Pessoa e interrompere la relazione.

[6] Fernanda sta parlando della relazione che ha avuto con Heronaldo, un giovane uomo che ha conosciuto in un bar della stazione della cittadina brasiliana Natal. Questo ragazzo le ha offerto un lavoro di cuoca presso una famiglia altolocata. I due hanno avuto una relazione ma, dopo un breve periodo, Heronaldo ha deciso di lasciarla e continuare la relazione con la sua fidanzata.

[7] Fernanda qui si riferisce alla sua relazione con Heronaldo. Come specificato precedentemente, quest’uomo ha una fidanzata, quindi Fernanda lo può incontrare solamente in alcune circostanze e non può uscire con lui di giorno, è relegata ad una sfera secondaria e non si sente di conseguenza donna a tutti gli effetti anche perché, in questo periodo della sua vita, lavora presso una famiglia altolocata in qualità di cuoca e quindi si assiste ad una netta separazione dei ruoli: Fernando di giorno e Fernanda di sera. Precedentemente, quando frequentava la scuola a Campina Grande, non poteva uscire vestita da donna e quindi si travestiva solamente di sera. Inoltre, a scuola le veniva proibito di usare il bagno maschile negli orari a cui agli altri era permesso (1994, 31).

Silvia Campagnola, “La disfatta dei generi. Una memoria nomade e queer”, in Scritture migranti, 5, 2011, pp. 155-186