di Ugo Fracassa

La fortuna delle scritture migranti in ambito nazionale, al di là dei premi riservati e dell’accoglienza editoriale assicurata, si misura principalmente sulla capacità di penetrazione nell’immaginario dei lettori autoctoni di trame, atmosfere e personaggi da esse desunte. La storia della letteratura migrante in Italia, cioè, non diversamente da qualsiasi storia letteraria secondo H. R. Jauss, va declinata pure sotto forma di storia della sua ricezione. Ogni fortuna letteraria, d’altra parte, oltre che sui dati di tiratura e vendita, può essere vagliata in modo indiretto e mediato, attraverso i casi di citazione, omaggio e riscrittura: in altre parole, col censimento del riuso di materiali originali in nuove testualità.

Alcuni segnali di un simile processo cominciano ad imporsi all’attenzione in primis del critico versato negli studi di settore. Due esempi recenti, molto diversi in quanto a consistenza e visibilità ma spie entrambi di una progressiva permeabilità del sistema culturale nazionale all’eterogeneo sottoinsieme, sono, da una parte la versione cinematografica del fortunato romanzo di Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, realizzata dall’esordiente Isotta Toso nel 20101; dall’altra l’esergo hajdariano contenuto in Blanchard close, libro di poesia pubblicato da Matteo Chiavarone, classe 1982, nel 2011: «“Piove sempre / in questo / paese / forse perché sono / straniero”. Gëzim Hajdari». In entrambi i casi l’universo poetico e narrativo che i migranti hanno saputo creare negli ultimi venti anni diventa fonte di ispirazione per gli autori nativi dell’ultima generazione. In particolare, se nell’epigrafe «l’essenziale molto spesso non è ciò che dice, ma l’identità del suo autore, e l’effetto di cauzione indiretta che la sua presenza determina al limitare di un testo» (Genette, 1989, p. 155), è tanto più significativo che ad essa ricorra un giovane poeta poiché ciò segnala, nel percorso di formazione dell’ultima generazione dei nostri scrittori, la possibilità di integrare nel canone modellizzante anche autori italofoni di altra origine.

Esiste però un caso di omaggio, unico fino a qualche tempo fa ed eccezionale tuttavia, che, in ragione della notorietà dell’artista che l’ha formulato – Fabrizio De André – ha reso possibile l’acquisizione, a livello di cultura nazionale-popolare, di uno dei primi titoli della letteratura migrante in questo Paese: Princesa (1994) di Fernanda Farias de Albuquerque (scritto a quattro mani con Maurizio Jannelli, il romanzo autobiografico ricapitola la dolorosa ma struggente esperienza di un transessuale, in viaggio dal rurale nordest brasiliano verso le metropoli europee dove conoscerà un destino di prostituzione, carcerazione e sieropositività)2. Il successo della canzone eponima (ma non omografa: Prinçesa), contenuta nell’album Anime salve del 1996, l’ultimo pubblicato vivente l’autore, ha portato uno degli “incunaboli” del nuovo genere ad una dimensione di celebrità assolutamente preclusa all’opera originale3. Il cantautore genovese, aduso alle riscritture, ha spesso capitalizzato la rendita garantita da fonti nobili ed erudite – François Villon, Edgar Lee Masters, gli evangelisti apocrifi – senza per questo limitarsi ad ipotesti letterari. Anzi, un’analogia con Princesa è possibile ravvisare piuttosto nell’antico riuso deandreiano di una tessera musicale, quella estratta dal concerto per tromba di Georg Philipp Telemann4, a mo’ di incipit sonoro per La ballata dell’amore perduto (1966). Anche in quel caso, infatti, la riproposizione in forma di canzone era valsa a divulgare un tema verosimilmente inaudito alle orecchie degli appassionati di musica, “leggera” quand’anche cantautoriale. Ma, innanzitutto, una parola sui controversi estremi anagrafici di un romanzo la cui copertina attribuisce paritariamente a Farias de Albuquerque e a Jannelli la paternità. Diversamente da altri esemplari della prima ondata di scritture migranti, qui l’altra firma non rimanda ad un curatore o editor con mansioni di informatore linguistico; Jannelli, che di Fernando/a ha raccolto la storia nel carcere romano di Rebibbia, annota nelle Brevi note di contesto allegate fin dalla prima edizione: «La sua scrittura produsse altra scrittura, la mia» (de Albuquerque, Jannelli, 1994, p. 7). Ma se l’autorialità è da considerare bibliograficamente doppia, il testo è geneticamente trino poiché negli anni della detenzione, prima che all’ex brigatista romano, Fernanda aveva narrato la propria vicenda all’ergastolano Giovanni Tamponi, della cui lingua sarda, infatti, porta i segni il brogliaccio originario. Correttamente, perciò, nelle già citate Note, il coautore descrive i tre partecipanti all’impresa letteraria «come tre funamboli» (ibid.), tutti parimenti in bilico nel repentaglio di una creazione romanzesca cui si affidano gravosi investimenti esistenziali: scrittura come terapia «Giovanni, che a sua volta scriveva brevi raccontini autobiografici sulla sua esperienza di pastore, le consigliò la medicina: scrivere per tenersi insieme, per resiste all’azione devastante della reclusione» (ibid.) e ricerca identitaria «Lo scenario dell’incontro fu Rebibbia. La scena quella dell’arrivo nel reparto G8 di un gruppo di brigatisti in piena crisi d’identità» (p.8). E da ultimo, ma primariamente, è la stessa Fernanda a raccontare in nome del suo doppio: quel Fernandinho smarrito nell’infanzia nordestina ma persistente nel maschile dell’identità pubblica del protagonista e dello scrittore5.

 

In quanto a De André, la cooperazione creativa era per lui pratica ben nota se – come si legge nell’anonima voce dedicatagli dalla più frequentata enciclopedia on line poteva rivendicare nell’intera discografia la piena autorialità per otto canzoni soltanto6 (avendo spesso affidato ad altri la composizione musicale e condiviso quella letteraria7). Infatti, se da una parte il progressivo disinteresse per la parte musicale già relegata, nelle ballate degli esordi, a funzioni pressoché mnemotecniche di supporto alla parola l’aveva portato nel corso degli anni a demandare ad altri l’onere della composizione (Mauro Pagani ed Ivano Fossati negli ultimi tre album) dall’altra, come detto, la stesura dei testi è spesso ottenuta come mosaico di citazioni8, quando non come rifacimento o traduzione da fonte letteraria. Non peritandosi di lasciare adito a qualche interpretazione malevola, così Francesco de Gregori, uno tra i suoi collaboratori, ha definito l’attitudine professionale del collega ligure: «Fabrizio è stato un grande organizzatore del lavoro altrui, perché le cose che realmente ha inventato, ha scritto, sono percentualmente molto poche rispetto a quelle che lui ha preso, o firmandole o senza firmarle»9.

Ciò detto, è innegabile e comunemente percepita la cifra deandreiana, non soltanto in Bocca di rosa (travestimento à la Brassens) o Via del Campo (già musicata da Enzo Jannacci10) ma anche nell’opera dei molti epigoni generati dal suo modello, e non deve pertanto sorprendere la progressiva dimenticanza della fonte cui vanno incontro, nella fruizione del pubblico, le citazioni disseminate e solitamente dichiarate dal cantautore.

Ad una medesima logica di attenuazione della firma originale, d’altra parte, rispondono certi appunti di De André su Princesa11, laddove si individua in maniera pressoché esclusiva in Jannelli l’autore del libro e se ne oblitera la dimensione autobiografica: «un romanzo come quello di Jannelli può comunicarti molte emozioni anche tante quanto sono quelle provate dal protagonista o dalla protagonista»; «ho tratto [Prinçesa] da uno splendido, breve romanzo […] in effetti una biografia»12. Non deve perciò sorprendere il disinteresse manifestato nel marzo 1997 per un eventuale incontro in carcere col protagonista-scrittore brasiliano, in occasione delle riprese del documentario di Stefano Consiglio, Le strade di Princesa (1997), cui Paola Ermini lo invitava a partecipare: «ti vorremmo proporre un incontro a Rebibbia con Princesa. Credi che questo sia organizzabile? Ti salutano Maurizio Iannelli [sic] e Stefano Consiglio»13.

In un appunto vergato di getto sullo stesso foglio del fax che conteneva la proposta, ecco, incontrovertibile, il commento autografo: «Cosa cazzo dovrei fare secondo loro? E perché la tv? E la colonna sonora? E il grano? Gratis non mi muovo dal letto!!!». Infine, va dato atto allo chansonnier genovese di aver coerentemente applicato alla creazione artistica, nel corso dell’intera carriera, un principio fondamento di ogni poetica postmoderna desunto da un musicista francese e giudiziosamente trascritto nelle carte senesi: «ha ragione Paul Mauriat quando dice che un artista oggi deve essere più un raccoglitore di idee che non un inventore»14. Un atto di coerenza, perciò, e non di liberalità, quello dell’autore di Bocca di Rosa quando, ascoltatane da Peppe Barra la versione in napoletano, ne sanciva immediatamente l’indipendenza rispetto all’originale: «ha indovinato la scelta di proporre Bocca di rosa in napoletano. E mi sono parse ottime le soluzioni armoniche adottate: la mia Bocca di rosa sembra una traccia»15 (Pozzi, 1995, p. 35).

De André ha valutato senza falsa modestia la ri-scrittura di Princesa in occasione di un’intervista, seguita alla pubblicazione di Anime salve, per la quale, come era solito fare, aveva preventivamente messo nero su bianco le risposte, secondo una procedimento che gli permetteva di esplicitare i presupposti di una poetica comunque profondamente riflessa e autoconsapevole. Ecco, tra l’altro, quanto scriveva: «il romanzo [Princesa] ha potuto ridursi nel testo di una canzone senza perderci troppo e forse guadagnandoci qualcosa grazie al fascino della musica». Perdita e guadagno costituiscono esito obbligato per ogni traduzione intersemiotica, ovvero – secondo Roman Jakobson – per le trasposizioni «da un sistema di segni a un altro: per esempio dall’arte del linguaggio alla musica» (Jakobson, 2002, p. 64). Si tratta piuttosto di chiedersi, con le parole del linguista russo, anche a proposito di De André: «traduttore di quali messaggi? Traditore di quali valori?» (ibid.). Per quanto attiene all’acquisto traduttivo, esso pare consistere principalmente nella veste sonora che, grazie alle continue modulazioni tra tonalità maggiori e minori, coopera ad una rilettura del racconto in chiave di reiterata metamorfosi esistenziale; ancora dall’intervista: «[Princesa] è la storia non solo di una ma di molte metamorfosi e così ho stretto il testo della canzone intorno alle tappe fondamentali di queste mutazioni». Due ulteriori indizi confermano l’interesse per il tema alla vigilia della composizione: le fitte sottolineature nel volume di Italo Calvino Perché leggere i classici16, la cui lettura risale ai primi anni Novanta, laddove si parla delle Metamorfosi di Ovidio; il primo appunto manoscritto per la canzone che ipotizza per la mutazione del personaggio l’influsso lunare:

 

LA LUNA (astro femminile per eccellenza – VEDI ASTROLO

PRINCESA

(a fargli crescere quello che non ha e sopprimere quello che ha in eccesso)

E SE FOSSE LA LUNA DELLE ALTE MAREE17

 

Tra l’altro, il rimando all’astrologia, disciplina di cui De André era appassionato lettore, non esautora quello, più pertinente ma inespresso, al mito dell’androgino nel Simposio di Platone: «Il maschio aveva tratto la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il terzo sesso, che partecipava di entrambe, dalla Luna, la quale partecipa della natura del Sole e della Terra». Acquisto ulteriore si registra a livello di cromatismo fonetico, dal momento che l’editing di Maurizio Jannelli aveva decisamente raffreddato il materiale linguistico del brogliaccio trascritto da Tamponi, disattivando il cortocircuito mistilingue pur senza cancellare, almeno sul versante portoghese, le tracce di un plurilinguismo che ha imposto l’appendice di un glossarietto. L’autore di Prinçesa mantiene il doppiofondo brasiliano nella medesima posizione in coda ma lo amplifica con l’inclusione della filastrocca in lingua originale, che chiude coralmente il pezzo, dentro i confini testuali. Inoltre De André orienta fin da subito composizione musicale e arrangiamento verso quell’idea di mutevolezza che fedelmente ricalca, nella canzone, lo svolgimento della vicenda narrata dal romanzo. Colpisce in questo senso, per la risoluta sommarietà compositiva e per l’immediatezza visiva al tempo stesso, l’indicazione annotata a margine dei primi appunti: «seconda strofa sui tasti neri»18; come pure sorprende, per la spregiudicata propensione alla contaminazione, l’uso di uno strumento come il cembalum, tradizionalmente legato alla cultura romanés, convocato qui a sottolineare il nomadismo del corpo e dello spirito del protagonista transgenere. Per quanto attiene invece al versante proditorio della sottrazione traduttiva, la canzone comporta innanzitutto, rispetto all’originale, una diminuzione del valore memorialistico e di testimonianza ad esso connaturato; in altre parole cancella il “peccato originale” delle scritture migranti macchia indelebile alla fonte quella tara dell’autobiografismo additata dai critici come marchio di fabbrica di una prima fase della produzione, databile alla prima metà degli anni Novanta ma contrastata con successo, in anni più recenti, dagli stessi migrant writers nostrani. Nell’opera deandreiana, infatti, la prinçesa protagonista di un tango ibrido e contaminato finisce per dire “io” come ogni personaggio fittizio sa fare, necessariamente al di là di qualsiasi corrispondenza coi traumi di un vissuto reale. Diverso e, si direbbe, lieto è pure il finale, tanto più che come si evince dalla comparazione con la conclusione del romanzo all’ultima strofa della canzone (trascritta di seguito) occorre aggiungere l’esergo corale della filastrocca che, nel saliscendi della selezione lessicale, suggella in battere il pezzo sulla parola «viver» (in traduzione gli ultimi sei lemmi: la sbronza / le botte / le carezze / il fallimento / lo schifo / la bellezza /vivere).

 

Princesa

Prinçesa

Qui da voi, non si muore fragoro-samente. […] Qui si sparisce zitti zitti in sottovoce. Silenziosamente.Sole e disperate. Di aids e di eroina. Oppure dentro una cella, impiccate a un lavandino. Come Celma, che vorrei ricordare. Dormiva nella cella a fianco, dentro quest’altro inferno dove ora vivo e che ho deciso di non raccontare. (de Albuquerque, Jannelli, 1994, p. 103).

 

A un avvocato di Milano ora Prinçesa regala il cuore e un passeggiare recidivo nella penombra di un balcone

 

Quel sigillo appare tanto più significativo in quanto emerge dal lavorio compositivo, in modo netto e incontrovertibile, dopo altre ipotesi di segno opposto: parar / voltar / ficar (fermare, tornare, arrestarsi)19, verbi semanticamente omogenei nell’assecondare il brusco stop del flusso ritmico e pertanto non in grado di garantire una prospettiva vitale alla vicenda cantata. L’opzione viver, allora, risulta vincente perché in linea con la poetica di Anime salve, disco dedicato al tema della solitudine, spesso effetto di esclusione ma capace di garantire uno spazio di libertà:

 

Sembrerebbe un album sulla emarginazione delle minoranze: credo sia qualcosa di più: è un discorso sulla libertà, la libertà di essere e di rassomigliare a se stessi, una libertà conquistata attraverso l’esperienza della solitudine20.

 

La variazione del finale consiglia di soffermarsi brevemente sulle modalità di riscrittura creativa cui si ispira la canzone21. L’episodio dell’avvocato infatti è presente nel romanzo molte pagine prima della conclusione, ovvero quando Fernandinho tenta le prime sortite cittadine a Campina Grande, non lontano dalla fazenda e dagli occhi di sua madre Cicera. Ma in un innamoramento analogo, esclusivo cioè ecapace di suscitare speranze di stabilità sentimentale e promozione sociale, il protagonista incapperà a Rio: «João Paulo studiava per diventare ingegnere» (de Albuquerque, Jannelli, 1994, p. 64). L’andirivieni tra i due episodi nella costruzione del mosaico testuale di Prinçesa è ben rappresentato dai penultimi versi della canzone che interpolano, rispettivamente, una frase di pagina 65 («Princesa gli dà il cuore gratis») e una di pagina 34 («A sua insaputa facevo le mie passeggiare solitarie»). In una prima stesura De André aveva tratto dal brano di pagina 65 (che, in una citazione più completa, recita: «Princesa gli dà il cuore gratis, noi il culo a pagamento») una strofa infine emendata: «A un avvocato di Milano / ora Prinçesa regala il cuore / e non è colpa di Prinçesa / se gli altri vendono il culo a ore»21. A livello di redazione intermedia è possibile ravvisare una maggiore fedeltà alla fonte narrativa, destinata in seguito a scadere dalla funzione di testo ispiratore a quella di pretesto compositivo. È il caso di quel: «io per davvero e voi per gioco», lungamente rimodellato nei fogli manoscritti:

 

IO PER DAVVERO

E VOI PER SCHERZO

PRINCESA

IO PER LA VITA E VOI PER POCO

IO PER DAVVERO E VOI PER GIOCO

 

ottenuto come calco dal seguente passaggio del romanzo: «Si, stringiamoci José. Io per davvero e tu per scherzo. Abbracciami José, che mi voglio femmina per te» (p. 41), e caduto da ultimo nella versione definitiva. Altre volte, come per il primo esempio, il nuovo autore sembra non voler eccedere con espliciti e continui riferimenti alla realtà della prostituzione, descritta in modo crudo, ossessivo e a tratti brutale nel romanzo, ben più di quanto non accada nella pur non eufemistica canzone. Si veda ad esempio come non superi la soglia dell’avantesto il particolare descrittivo delle «grandi mammelle di marmo»22, desunto da un ritaglio di cronaca nera milanese dove, a proposito dell’esiguo vestiario esibito in strada dai viados in quei primi anni Novanta, si chiosava: «Il resto tutto fuori. A cominciare dagli enormi seni di marmo»23. Del resto, a proposito delle «atroci esperienze della protagonista» e della loro ricaduta nei versi della canzone, fa fede l’intervista per la presentazione di Anime salve:

 

abbiamo preferito confinar[le] in alcune parole emblematiche cantate in coro alla fine del brano. Quelle parole vogliono rappresentare semplicemente i segni sulla pelle che porta un comune mortale dalla vita particolarmente difficile.

 

Non che il tema del meretricio inibisse la vena poetica di un cantautore che anzi ha collocato nell’empireo della propria produzione ritratti di personaggi reietti e marginali che trovano nella figura della prostituta una sorta di inarrivabile antonomasia. Si pensi solo a Marinella e alla “graziosa” di Via del campo, entrambe ispirate a vere presenze, strappate alla cronaca o al deposito dell’autobiografia. Dell’interesse specifico per il fenomeno della prostituzione testimoniano anche alcuni appunti risalenti al periodo di gestazione di Anime salve: si vedano per esempio i propositi di documentazione «parlare di viados con Vincenzo Mollica»24 o le reiterate sottolineature nella recensione alla Retorica delle puttane di Ferrante Pallavicino (nella «Repubblica» del 14 febbraio 1993 a firma di Paolo Mauri), in particolare di quel passo circa le funzioni delle prostitute: «quasi di cacatoi e d’orinali esposti a benefizio commune di chi vuole sgravarsi dalla sovrabbondanza del seme»25. Sta di fatto però che, nei versi loro dedicati, esistenze dissipate nello squallore e segnate dalla riprovazione sociale si riscattano sulla carta anche grazie ad una selezione lessicale che indulge, per contrasto, in fiori (quelli nati tra il letame, siano rose o fiordalisi) e stelle (quelle cui ascende Marinella prima che proprio lei si trasformi, circa trent’anni dopo, nella «stella di nome Prinçesa»). D’altra parte, cresciuto in un ambiente cattolico, il giovane De André poteva aver trovato le istruzioni per un simile, paradisiaco riscatto già in quei Vangeli che, limitatamente ai libri apocrifi, diverranno a loro volta fonte d’ispirazione per La buona novella (1970): «In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Matteo, 21, 31).

 

L’imbattersi in annotazioni retrospettive riferite all’album del 1970, mentre si sfogliano gli ultimi quaderni preparatori di Anime salve, non può sorprendere chi abbia assistito ad uno spettacolo dell’ultima tournée del cantautore genovese, nella quale l’apertura dedicata ai brani dell’album più recente introduceva il pubblico ad un’ampia sezione tratta proprio da La buona novella. In quello spettacolo l’esecuzione di Prinçesa e quella de L’infanzia di Maria distavano pochi minuti, come poche righe separano, nei manoscritti, questi due appunti:

 

[in Prinçesa] il desiderio di diventare adulto trova ostacolo nella paura dell’autorità del padre, si risolve in un primo momento nella risoluzione dell’adolescente a fuggire […]

[L’infanzia di Maria] racconta della segregazione nel tempio della madre di Gesù dai tre anni fino ai dodici, quando ne fu espulsa perché impura perché aveva avuto la sua prima mestruazione26

Insomma, se si prova per una volta a gestire in prima persona il cortocircuito poetico che permette a De André di accostare alto e basso, triviale e sacrale, senza riuscire blasfemo, non si tarderà ormai a percepire una certa aria di famiglia tra i due personaggi della sua umana commedia: più di Jamin-a27, venale e famelica donna dei porti, più della eufemistica graziosa di Via del campo, è la fanciulla Maria a fare il paio col transgender Fernandinho27.

Per entrambi la devianza rispetto a una sessualità normata e predestinata produrrà, prima l’espulsione dal calore dell’ambiente familiare («Non fu più il seno di Anna fra le mura discrete / a consolare ilpianto, a calmarti la sete» (L’infanzia di Maria); «mia madre, stanca del lavoro nei campi mi raccoglieva tra le sue braccia […] lei mi stringeva al seno» (de Albuquerque, Jannelli, 1994, pp. 13-14), poi quella dal consesso sociale, sancita dai sacerdoti del tempio («i sacerdoti ti rifiutarono alloggio» ne L’infanzia di Maria) o dal parroco di campagna nordestino «“Se c’è un diavolo in mezzo a voi che si ritiri!” […] Si fece il segno della croce in nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo e iniziò la Santa Messa. Io m ritirai uscendo dalla chiesa a occhi bassi»(p. 26). Fernando si ribella, ancora prepubere «Avevo sette anni e non sapevo cosa fosse il peccato» (p. 16) alla propria impartita eterosessualità; Maria compie, alle soglie dell’adolescenza («avevi dodici anni e nessuna colpa addosso» ne L’infanzia di Maria), una scelta ancora più radicale: la castità, la renitenza alla leva sessuale28.

Le potenzialità eversive di simili scelte vengono sottolineate, metaforicamente nei versi de L’infanzia di Maria, più esplicitamente nelle note di presentazione di Anime salve licenziate dall’autore. Nel primo caso il riferimento al maggio «ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio» non può non rimandare a quello francese in un disco che consapevolmente allegorizza, nella vicenda cristologica, l’alternativa rivoluzionaria sessantottina. Maggio è il menarca, la vermiglia epifania della pubertà, ma pure la rosseggiante primavera di ribellione di una fanciulla votata alla castità in un contesto che esigeda lei matrimonio e maternità29. Nel secondo caso conviene riportare un brano dalla nota stilata per la rivista Etnica & World Music all’uscita dell’album:

 

E il primo marchio che la società imprime consiste nell’impartire un sesso unico e definitivo all’individuo senza tenere conto del “chiaroscuro dove si nasce”, della complessità e del malinteso che accompagnano la vita di tante Prinçesa […] il potere ti impone fin dalla nascita le stigmate di una cittadinanza, dell’appartenenza a una nazione magari in vista di un tuo eventuale futuro apporto in difesa dei suoi confini o nell’offesa di quelli altrui30.

È significativo notare come, nello stesso snodo argomentativo, la scelta transgenere di Prinçesa rimandi ad istanze antimilitariste. Del resto, l’accostamento del protagonista al mondo militare era già nel romanzo di Farias de Albuquerque, dove si narra il fallimentare tentativo di arruolamento di Fernandinho che, assicurava mamma Cicera: «da grande sarà un sottufficiale» (de Albuquerque, Jannelli, p. 28). Infine, del corpo dei due soggetti anomali, volenti o nolenti, si farà mercimonio – incanto («nel dormiveglia della corriera / lascio l’infanzia contadina / corro all’incanto dei desideri» Prinçesa) o lotteria («del corpo di una vergine/ si fa lotteria» L’infanzia di Maria) – così per le strade metropolitane, prima del Brasile e poi dell’Europa, come già per la campagna e le vie della Giudea. Non è forse troppo audace ipotizzare che all’orecchio del De André lettore di Princesa potessero riecheggiare certi versi de La buona novella.

 

L’infanzia di Maria, FDA (1970)

Princesa, FFdA (1994)

 

E si vuol dar marito / a chi non lo voleva,/ si batte la campagna,/ si fruga la via./ Popolo senza moglie,/ uomini d’ogni leva,/ del corpo di una vergine / si fa lotteria […] Coro: Guardala, guardala, scioglie i capelli, / sono più lunghi dei nostri mantelli, / guarda la pelle tenera, lieve […] guarda le forme, la proporzione, / sembra venuta per Tentazione

 

È la mia prima notte di marciapiede, le confessai […] Mi lasciò dentro uno sfolgorio di fari accesi, clacson e stelle a cielo aperto […] una fila di José in quattro ruote […] Giostra di luci e lampi su culi smisurati, labbra sboccacciate, tette, guaine e merletti. Frevo! Febbre carnevalesca: Fatti vedere tra le cosce Vania (de Albuquerque, Jannelli, p. 43)

 

 

La consonanza tra la scrittura migrante di Farias de Albuquerque e il mondo poetico di De André tuttavia non si limita alla convergenza tematica sulla figura della prostituta, ma concerne innanzitutto l’opzione linguistica. La sperimentazione sul dialetto genovese, vissuto e reinventato dal cantautore, a partire da Crêuza de mä, come lingua franca del bacino mediterraneo («Cominciai a scrivere i testi in un arabo maccheronico che poi tradussi in genovese, e meglio nella lingua di una Genova sorella dell’Islam»31), si apre in Anime salve ad un orizzonte atlantico, quello che congiunge, da sponda a sponda, Brasile a Portogallo. Se a favore dell’indole arabofona del genovese De André adduce i duemila vocaboli «di importazione arabo turca» (Coveri, 2007, p. 273), è pur vero che l’idioma cittadino vanta «una parentela fonetica col portoghese, come lo parlano in Brasile»32. Genovese e portoghese del Brasile condividono poi lo statuto di lingua minore, imposto per ragioni politico-economiche (non diversamente da quanto avvenuto al sardo, amato e musicato33):

 

Prendiamo il portoghese: fino a trecento anni fa era un idioma iberico. Poi quando papa Alessandro XII ha deciso che la Spagna e il Portogallo dovevano dividersi il mondo i Portoghesi sono andati […] in Brasile: a questo punto si poteva ancora dire che i brasiliani parlavano il dialetto portoghese?34 (Franchini, 2003, p. 65)

 

La breve ma circostanziata analisi riconduce a motivazioni geopolitiche la conquista e lo sfruttamento coloniale del Nuovo Mondo una questione che per un artista di minore consapevolezza si limiterebbe all’aspetto linguistico-letterario. Con analoga lungimiranza, il nordestino Farias de Albuquerque coglieva lucidamente, nella propria condizione di transgenere, lo stigma di uno sfruttamento sessuale strutturalmente fondato:

 

[Princesa] è una storia di realtà, una storia di vita transessuale […] il fatto di come vive un transessuale in mezzo alla società […] che dovrebbe avere un posto in mezzo alla società come tutti quanti […] con il problema che accade ai confronti di queste persone che sarebbe le persone del terzo sesso, o persone del terzo, diciamo, mondo. (Portelli, 1994, p. 4)

 

L’ospitalità che l’ultima e più matura produzione deandreiana ha garantito ad altri idiomi corrisponde spesso alla solidarietà dell’autore verso i nuovi immigrati, le cui ragioni risalgono ad una storia familiare e personale di sradicamento. Questa la schietta dichiarazione appuntata su un’agenda del 1988, in concomitanza cioè coi primi riflessi massmediatici della nuova ondata di flussi migratori: «Che cosa sono io? sono un genovese emigrato a Milano per lavoro. Come potrei avercela con i miei fratelli immigrati, da qualsiasi tipo di sud provengano?». Per il giovane Fabrizio alla scoperta dei carrugi di Sottoripa, del resto, l’adozione a fini artistici del dialetto genovese doveva costituire esperienza non dissimile a quella, straniante, che ogni migrant writer conosce quando scrive nella lingua d’arrivo; era infatti cresciuto nei dialettofoni anni Cinquanta da genitori piemontesi e aveva sperimentato il dialetto innanzitutto come trasgressione rispetto ad un lessico famigliare e borghese (cfr. Coveri, 2004). Non è forse un caso se molti concittadini, al primo ascolto di Crêuza de mä, hanno rimarcato una «pronunzia di alloglotto» (p. 83), non diversa cioè da quella esibita dal cantautore nell’interpretazione dei testi in gallurese, napoletano ecc. Ha scritto Édouard Glissant nella Poetica della relazione: «Siamo arrivati a un momento della storia in cui ci si accorge che l’uomo ha bisogno di tutte le lingue del mondo» (Glissant, 1998, p. 32), ciò che non presuppone «la coesistenza delle lingue, né la conoscenza di molte lingue, ma la presenza delle lingue del mondo nella pratica della propria» (p. 33). De André, come dimostrano le grammatiche arabe della sua biblioteca, avrebbe desiderato conoscere e parlare l’arabo che tuttavia non possedeva, come non possedeva il portoghese, né era fluente nel parlato gallurese, ma rispettava la biodiversità degli idiomi e, soprattutto, sperimentava la «solidarietà fra tutte le lingue minacciate» (p. 87). Praticava perciò traduzione e riscrittura, consapevolmente, come arte della rinuncia36 e all’occasione sapeva valorizzare «l’unicità di ogni lingua» (p. 35), per esempio nella molte volte citata coda portoghese di Prinçesa. Alla costruzione di questo ultimo tassello della canzone l’autore ha dedicato un impegno particolare, come dimostrano i già citati ripensamenti circa il verbo finale e la cura nella distribuzione delle voci nel coro conferma: «[…] 2 maschi / 3 femmine ecc.»37. Se davvero, come alcuni riportano, tra i coristi figuravano anche transessuali sudamericani (cfr. Sinopoli A., 2006, p. 64), la particolare attenzione dedicata alla filastrocca andrebbe spiegata con la volontà di restituire lingua e voce, unicità e opacità, a ciò che non può essere omologato. Ancora Glissant:

Le consentement général aux opacités particulières est le plus simple équivalent de la non-barbarie. Nous réclamons pour tous le droit à l’opacité […] Nous appelons donc opacité ce qui protège le Divers. (Glissant, 1990, p. 209)

 

Per un artista che aveva inteso, fin dagli esordi, trasferire nell’arte “minore” della canzone temi squisitamente letterari, aver inserito Princesa, un piccolo classico della letteratura immigrata38, fra i testi sacri dai quali “rubacchiare”, ha significato promuovere, tempestivamente e al netto di qualsiasi distinguo, le scritture migranti al rango di letteratura. Per il disco a venire, dedicato alla notte, De André aveva in animo di saccheggiare Lucrezio, il De rerum natura.

 

 

1. Sono in corso invece le riprese del film di Gabriele Salvatores tratto dal romanzo Educazione siberiana di Nicolai Lilin, pubblicato da Einaudi nel 2009.

 

2. Il romanzo, come molti dei primi licenziati da autori migranti, è uscito a doppia firma (di Maurizio Jannelli la seconda). Ma sulla complessa definizione dell’autorialità del volume tornerò più avanti. Questa la trafila biblio-discofilmografica dell’opera: Portelli A.,1994, La figura di una donna. Percorsi di scrittura, «Il Caffè. Per una letteratura multiculturale», n. 1, settembre, pp. 45 [contiene anticipazioni del romanzo e alcuni stralci dalla prima redazione a cura di Giovanni Tamponi]; de Albuquerque F. Farias, Jannelli M., 1994, Princesa, Roma, Sensibili alle foglie; Iidem, 1995, Princesa, Milano, CDE; Iidem, 1995, A princesa. Depoimentos de um travesti brasileiro a un lider das Brigadas Vermelhas, Rio de Janeiro, Nova fronteira (traduzione brasiliana); De André F., 1996, Anime Salve, BMG Ricordi; de Albuquerque F. Farias, Jannelli M., 1997, Princesa, Milano, M. Tropea; Consiglio S.(regia di), 1999, Le strade di Princesa – ritratto di una trans molto speciale, documentario tv, Italia; Goldman H. (regia di), 2001, Princesa, coprod.:Gran Bretagna Spagna Italia Francia Germania, distrib.: BIM [Vhs: Elleu multimedia].

 

3. La riedizione del 1997, licenziata da Tropea, reca in copertina la dicitura: «Da questo libro Fabrizio De André ha tratto ispirazione per Prinçesa».

 

4. Si tratta, come noto, dell’Adagio del Concerto in Re maggiore per tromba archi e continuo.

 

5. Sulla complessa dinamica identitaria e di genere sottesa al romanzo si veda: Proto Pisani, 2008.

 

6. Si declina ogni responsabilità in quanto alla veridicità dell’informazione, riportata qui in quanto vox populi e non come dato oggettivo.

 

7. Anche per canzoni celeberrime quali La guerra di Piero, scritta con Vittorio Centanaro la cui firma non compare per questioni legate alla normativa SIAE.

 

8. Su questa specifica tecnica compositiva dei testi deandreiani si veda: Marrucci, 2009, pp. 105-121.

 

9. Intervista a Francesco De Gregori di Roberto Cotroneo, da La mezzanotte di Radio due del 30 marzo 2006.

 

10. La traccia musicale proviene da un canto popolare francese del XV secolo. Nella trascrizione di Jannacci per i versi di Dario Fo, la canzone (La mia morosa la va alla fonte) entrò a far parte dello spettacolo 22 canzoni del 1965 per venire registrata su disco nel 1968, con un anno di ritardo sulla versione deandreiana.

 

11. Tutti i gli inediti deandreiani che citerò nel testo provengono dal Fondo Archivistico Fabrizio de André, su concessione della Sezione Archivi della Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena.

 

12. AFDA, IV/08 (B.2). Mio il corsivo.

 

13. AFDA, II, 1997.03.10 (K.9-18).

 

14. AFDA, IV/197.

 

15. La canzone, eseguita nel concerto-tributo dell’11 maggio 1995 al teatro Manzoni di Monza, è stata inserita nell’albuim Canti randagi dello stesso anno.

 

16. La donazione che ha costituito il Fondo archivistico comprende anche parte della biblioteca personale, nella quale è custodito il volume calviniano edito nel 1991.

 

17. AFDA, IV/12 (D.2). Tra le medesime carte, contenenti i primi appunti per Prinçesa, sul retro di un foglio si legge: «la mia carne di puttana / di mezzaluna».

 

18. AFDA, IV/12 (D.2).

 

19. AFDA, IV/118.

 

20. AFDA, IV/15 (D.3/3). Il brano è tratto dagli appunti per la presentazione dell’album al pubblico durante la tournée.

 

21. Sulla tecnica compositiva del cantautore cfr. Moscadelli, L’“Archivio Fabrizio De André”: osservazioni a volo d’uccello, [in corso di stampa].

 

22. AFDA, IV/2 (D.2).

 

23. AFDA IV/12 (D.2).

 

24. L’articolo, il cui ritaglio è in AFDA IV/141, è tratto dall’edizione meneghina del «Corriere della sera», 22 marzo 1994 e prendeva spunto dall’omicidio del ventiseienne peruviano Clever Gonzales Silva.

 

25. AFDA IV/141.

 

26. AFDA IV/141.

 

27. AFDA IV 156.

 

28. Canzone inserita in Crêuza de mä (1984).

 

29. Non si può non notare tuttavia l’assonanza tra il colore verdefoglia dei sorrisi in Princesa e gli occhi della bambina di Via del campo, della medesima tonalità. Ciò che stupisce allora è la provenienza dell’aggettivazione dal romanzo del 1994.

 

30. Da questo punto di vista, la fonte principale per la riscrittura deandreiana sembra essere il Protovangelo di Giacomo, anche se certe tessere decorative risultano estratte dagli altri libri apocrifi: «forse fu all’ora terza, forse all’ora nona, / cucito qualche giglio / sulvestitino alla buona» (L’infanzia di Maria) / « [Maria] dalla mattina fino all’ora terza attendeva con costanza alle preghiere, poi dall’ora terza fino alla nona, si occupava di lavori di tessitura» (Vangelo dello Pseudo Matteo). Simili trouvailles De André ha argutamente paragonato a refurtiva di scarso valore commerciale: «Grazie per l’autorizzazione al saccheggio / ci limiteremo all’argenteria»: così nella lettera di ringraziamento ad Alvaro Mutis per la liberatoria relativa a Smisurata preghiera, canzone contenuta in Anime salve e ottenuta come collage di citazioni dalla Saga di Maqroll il gabbiere: IV/12 (D.2).

 

31. Le pagine dei Vangeli apocrifi che maggiormente favoriscono una rilettura femminista ante litteram sono quelle del Libro sulla natività di Maria, nei Vangeli dell’infanzia.

 

32. Citato in: Fasoli, 1999, p.74.

 

33. Citato in :Dotoli, 2009, p.89.

 

34. Per un ragguaglio circa il Sabir, la lingua di servizio parlata in tutti i porti del Mediterraneo a partire dall’epoca delle Crociate fino al 1800 per agevolare il commercio: cfr. Cifoletti, 1989.

 

35. Zirichiltaggia (Baddu tundu) è del 1978 e fa parte dell’album Rimini.

 

36. La tirata circa la sovradeterminazione economica del destino di certe lingue e dialetti iniziava: «Prendi il genovese».

 

37. «La traduzione è fuga, quindi rinuncia. Quello che sembra sia soprattutto necessario indovinare nell’atto di tradurre è la bellezza di questa rinuncia» (Glissant, 1998, p. 36). Cfr. Coveri, 2004, pp. 81-90.

 

38. AFDA, IV/118.

 

39. Il redattore della quarta di copertina del citato primo fascicolo del «Caffé» prevedeva, a proposito di Princesa e degli altri titoli della letteratura migrante apparsi in Italia all’inizio degli anni Novanta: «Un giorno li ricorderemo come piccoli classici della letteratura immigrata».

 

 

Ugo Fracassa, «Il viaggio intertestuale di Princesa», in Id., Patria e lettere. Per una critica della letteratura postcoloniale e migrante in Italia, Roma, Perrone, 2012, pp.114-136